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 2014  agosto 19 Martedì calendario

IL DESISIONISMO CHE VIENE DA LONTANO

L’estate già finita (e forse mai cominciata) del 2014 sarà ricordata per il dibattito sull’autoritarismo, una parola che in Italia nessuno si sarebbe augurato di sentire risuonare. Ma è così: «autoritario/a» e «autoritarismo» sono i termini più adoperati in queste settimane a proposito della riforma del Senato votata in prima lettura l’8 agosto scorso, e del metodo scelto dal presidente del Consiglio Renzi per evitare che fosse rinviata all’autunno, come dichiaratamente tendeva a fare il largo e trasversale «fronte del No», che si è battuto fino all’ultimo a Palazzo Madama.
E si prepara, sia detto per inciso, a riprendere la sua battaglia alla Camera, e a riproporla, non solo contro i cambiamenti istituzionali, ma anche contro le riforme economiche e del mercato del lavoro che il governo si accinge a proporre, per aggiustare i conti pubblici, affrontare la congiuntura negativa e ottenere più ascolto in Europa.
Coincidenza vuole che questo accada nel trentennale (celebrato con il volume «Decisione e processo politico» della «Fondazione Socialismo», a cura di Gennaro Acquaviva e Luigi Covatta, pubblicato in questi giorni da Marsilio con saggi di studiosi e protagonisti del tempo tra cui Giuliano Amato, Gianni De Michelis, Giuseppe De Rita, Piero Craveri, Giuseppe Mammarella) della polemica sul «decisionismo» di Craxi, nata a ridosso del governo guidato dal segretario del Psi e nella stagione cominciata con il decreto sul taglio della scala mobile del 14 febbraio 1984, attraversata dallo scontro più duro che mai abbia diviso la sinistra italiana e dalla morte di Enrico Berlinguer l’11 giugno dello stesso anno, e conclusa con la celebrazione del referendum sulla stessa legge, il 9 e 10 giugno ’85, in cui gli elettori scelsero di confermare la scelta del governo di decurtare le buste paga.
Storicamente, si trattò della più grande vittoria politica del leader socialista e dell’inizio del declino del Pci, sebbene le resistenze di una certa sinistra, figlia di un pezzo di quel partito e presente nei gruppi parlamentari del Pd e in una parte consistente della Cgil, durino ancora, come s’è visto nel dibattito in Senato e nella votazione alla Camera, poi corretta, sulle pensioni degli insegnanti colpiti dalla riforma Fornero.
Ora, va detto subito, c’è un abisso, tra il Craxi di allora, perfettamente integrato nella Prima Repubblica e nella cosiddetta partitocrazia, e il Renzi di oggi, uscito a sorpresa dalla paralisi della Seconda e dall’infinita transizione italiana, con le parole d’ordine della rottamazione e della ristrutturazione di un sistema che non funziona. E mentre era esplicito il fallito progetto craxiano di scomporre e ricomporre la sinistra italiana sul terreno del riformismo, quello renziano del «partito della Nazione» ha contorni meno chiari, ed è tutto da approfondire.
Ma se è impossibile proporre un paragone tra i due leader, al di là di una qualche superficiale osservazione di atteggiamenti caratteriali e della ricerca di un metodo di comunicazione innovativo, è interessante, invece, misurare le resistenze e i problemi che Craxi a suo tempo si trovò, e Renzi si trova oggi a fronteggiare. E’ drammatico: sono passati trent’anni, eppure sono le stesse. Come l’attuale premier, anche il capo socialista del governo indugiò a lungo prima di scegliere tra i burocrati di Stato il suo capo di gabinetto, e si risolse a farlo solo dopo aver insediato come sottosegretario unico a Palazzo Chigi, cioè numero uno operativo dell’amministrazione, Giuliano Amato, il Dottor Sottile, che grazie alla sua cultura giuridica e istituzionale si muoveva con disinvoltura nel labirinto e nelle lungaggini della macchina statale italiana.
Ancora, come Renzi, anche Craxi e Amato ritenevano che l’unica cura possibile per consentire al governo di governare fosse un radicale programma di riforme istituzionali, la «Grande Riforma» che il leader del Psi aveva tratteggiato in un articolo, bollato come eresia, sull’Avanti del 28 settembre ’79. L’aspetto paradossale di questa vicenda, che riporta alle polemiche sull’autoritarismo di questi giorni, è che solo per aver annunciato di voler portare in Parlamento le riforme istituzionali, Craxi fu accusato di voler instaurare un regime di «Führerprinzip», cioè, nientemeno, di rifarsi al modello della dittatura nazista, proprio mentre si rifiutava di proporre l’elezione diretta del Presidente della Repubblica alla francese, cara invece al suo sottosegretario Amato e contenuta, a onor del vero, nel testo originale della Grande Riforma. Craxi era infatti un inguaribile gradualista, ed era piuttosto interessato a un cambiamento dei regolamenti parlamentari con l’introduzione del voto palese (per limitare le scorribande dei franchi tiratori), alle corsie preferenziali per i disegni di legge del governo (per favorire la realizzazione del programma), e a un uso più frequente della questione di fiducia, senza che questo dovesse necessariamente esser considerato un abuso autoritario, come al contrario accadeva puntualmente.
E qui – ribadendo che il paragone tra il 1984 e il 2014 è fuorviante – emerge la vera ragione per cui l’unico governo che abbia tentato di riformare il meccanismo stagnante della Prima Repubblica alla fine fallì. Non fu infatti per eccesso di decisionismo, semmai per deficit e progressiva rinuncia. Così, fa una certa impressione leggere nella ricostruzione dei testimoni che Craxi, poi dedicatosi con grande impegno alla battaglia per il taglio della scala mobile, fece oltre duecento ore di trattativa con sindacati e parti sociali prima di rassegnarsi a varare lo storico «decreto di San Valentino». E che sarebbe stato disposto a dimezzare il numero dei punti di contingenza tagliati, vanificandone l’effetto sulla ripresa economica, pur di ottenere il consenso, fino all’ultimo negato, di Lama e della Cgil. E infine che si sarebbe addirittura rimangiato tutto, sei mesi dopo, per evitare il referendum che poi vinse.
In questo – solo in questo – sta la lezione di una vicenda e di una polemica ormai lontane, che adesso potrebbero servire anche a Renzi: una volta imboccata la strada del riformismo e del decisionismo, occorre percorrerla senza indugi, per non essere travolti da ostruzionismi e resistenze di ogni tipo. Forti, fortissimi – ed è l’unico punto di contatto tra quel passato e l’attuale presente –, allora come oggi.