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 2014  agosto 18 Lunedì calendario

SE VINCONO LE DEMOCRAZIE ILLIBERALI

Che il Medio Oriente sia sinonimo di instabilità e conflitto non è certo una novità di questi giorni. Eppure c’è qualcosa, negli ultimi avvenimenti, che impedisce di considerare la situazione medio-orientale con il fatalismo di chi sostiene che in fondo non c’è niente di nuovo.
Quello che c’è di nuovo non è certo la pluralità di conflitti prodotta da una micidiale miscela di debolezza delle istituzioni (giunta in alcuni casi a un vero e proprio collasso dello Stato), corruzione, autoritarismo, risentimento contro colonialismo e neo-colonialismo, religione politicizzata, arretratezza economica e ingiustizia sociale, cui si aggiunge l’irrisolta questione palestinese. La novità, che rende tutto ancora più esplosivo e meno governabile, è il fatto che i singoli aspetti della «questione medio-orientale» risultano oggi collegati, intrecciati in un groviglio difficile da interpretare, e ancora più difficile da gestire e persino da contenere.
Il punto dove oggi si intrecciano tutti questi aspetti è l’Iraq.
Lo «staticidio» perpetrato dopo l’eliminazione di Saddam – con lo smantellamento dell’esercito e della struttura amministrativa – invece di fare progredire il Paese verso democrazia e stato di diritto lo ha fatto regredire verso tribalismo e settarismo religioso.
Una volta deciso di far coincidere appartenenza religiosa e sistema politico, sulla base delle regole della democrazia un governo appoggiato dalla maggioranza della popolazione non poteva che essere sciita. Ma governo di maggioranza e democrazia non sono la stessa cosa. Esiste infatti una categoria politologica che oggi prende corpo non solo in Iraq, ma in Paesi che vanno dalla Russia alla Turchia: la democrazia illiberale.
Maliki, appoggiato sia da Stati Uniti che dall’Iran, ha governato con piena legittimazione elettorale, ma in modo repressivo e settario.
Va detto comunque che anche nell’ipotesi di una diversa gestione del potere, di un coerente sforzo di inclusione di tutte le componenti della realtà irachena, un governo sciita a Baghdad non sarebbe stato accettato dai Paesi sunniti, in primo luogo dall’Arabia Saudita, che non si è mai rassegnata – senza aspettare la degenerazione settaria dei governi post-Saddam – al fatto che l’Iraq fosse governato dagli sciiti, visti come eretici e soprattutto considerati strumenti delle ambizioni regionali dell’Iran. Arabia Saudita, Qatar ed Emirati sono non da oggi impegnati in un’azione di sostegno nei confronti di movimenti sunniti, anche i più estremisti, in funzione anti-sciita e anti-iraniana, ma anche contro Assad, non propriamente sciita (la setta alawita è solo vagamente collegata allo sciismo), ma certamente non sunnita e soprattutto sostenuto dall’Iran.
La lunga guerra civile siriana ha avuto origine da una protesta collegata alla spinta popolare della cosiddetta Primavera Araba, ma si è rapidamente trasformata in una «proxy war», una guerra per procura in cui si giocano interessi ben diversi da quelli di una popolazione martirizzata.
L’Isis, oggi ridenominatosi Stato Islamico, ha origini irachene, in quel al-Zarqawi il cui radicalismo è risultato eccessivo anche per i certo non moderati responsabili di al Qaeda (prima Bin Laden poi al-Zawahiri). Unitosi, all’inizio come gruppo non dominante, alla guerra in corso in Siria, ha poi passato il confine lanciando un’offensiva apparentemente inarrestabile.
Vi sarebbe da ironizzare sull’utopia reazionaria della creazione di un Califfato (come se qualcuno pretendesse di ricreare l’impero romano), ma in realtà, se le pretese sono transnazionali, sono gli stati ad essere presi di mira in vista di una conquista del potere. Quello che preoccupa – e che spiega il perché della decisione di Obama, interventista quanto mai riluttante, di tornare a coinvolgersi militarmente in Iraq – è che a minacciare la tenuta dello Stato iracheno non vi sono soltanto i feroci combattenti dello Stato Islamico, ma anche ex baathisti e altri sunniti uniti contro l’odiato governo della maggioranza sciita.
E’ molto significativo che Maliki sia stato indotto a dimettersi a favore di un personaggio meno settario non solo dalle pressioni degli Stati Uniti, ma anche da quelle dell’altro suo protettore, l’Iran.
Questa convergenza fra Washington e Teheran sta suscitando l’allarme dei sauditi e degli altri Paesi del Golfo, da qualche tempo molto sospettosi delle possibili ripercussioni di un eventuale successo del negoziato nucleare. In effetti un’alleanza di fatto (nonché di Israele) contro la minaccia dello Stato Islamico potrebbe riprodurre la situazione verificatisi ai tempi dell’attacco americano contro i talebani, quando l’Iran prestò aiuto alle operazioni militari americane, e quando probabilmente si sarebbero aperte prospettive di normalizzazione fra Teheran e Washington, non fosse stato per la sbavatura retorica di George Bush e la sua classificazione dell’Iran nell’«asse del Male».
Ma forse i sauditi, e con loro gli israeliani, potrebbero tranquillizzarsi.
Sia nel Congresso degli Stati Uniti che al vertice del regime iraniano vi è chi è in grado di impedire, anche se i due Paesi si troveranno sullo stesso fronte nel cercare di arrestare l’avanzata dello Stato Islamico, una vera normalizzazione dei loro rapporti.
Ma qualcuno comincia a chiedersi invece se il fronte comune contro lo Stato Islamico in Iraq non finirà per produrre effetti anche in Siria. Diventa difficile infatti immaginare come Washington possa combattere lo Stato Islamico in Iraq e sostenere in Siria un fronte anti-Assad di cui lo Stato Islamico è diventato una delle componenti più significative.
Obama non si accinge certamente a rivedere la sua ostilità nei confronti del dittatore siriano, ma non sembra da escludere che, visto che nessuna soluzione sembra poter derivare sul terreno militare, prenda corpo un’ipotesi di compromesso che richiederebbe il coinvolgimento dei sostenitori dei due schieramenti che oggi si scontrano in Siria: americani, sauditi e turchi da una parte, russi e iraniani dall’altra.
Assad non è stato finora sconfitto, ma la sua resistenza non ha fatto che far crescere la forza delle componenti ribelli più estreme e meno gestibili anche da parte di chi (i sauditi) le aveva sostenute, e oggi comincia a temerle.
Potrebbe essere venuto il momento di concordare un’uscita di scena di Assad, – non sconfitto ma incapace di stroncare la ribellione – in puro «stile Maliki».
In ogni caso, diventa sempre più evidente che la soluzione delle numerosi crisi del Medio Oriente potrà essere solo globale.