Simonetta Fiori, la Repubblica 18/8/2014, 18 agosto 2014
MA QUALI BELLI DENTRO? INCHIESTA SULLA SOLITUDINE DEI BRUTTI ANATROCCOLI
Tra le inchieste, forse è la più insidiosa. Si possono intervistare le vittime del razzismo e della povertà, della esclusione sociale e della discriminazione sessuale. Ma è difficile andare a chiedere a una persona brutta, fisicamente brutta, «dai, raccontami la tua storia». Perché la bruttezza è oggi inammissibile, con se stessi e nel contesto pubblico. Nella penombra della propria interiorità e nella ribalta dei rituali sociali. I brutti esistono, ma la bruttezza è bandita perché sconveniente, inopportuna, in scandalosa controtendenza rispetto alla levigatezza che ci siamo imposti. Quasi una provocazione involontaria, che è difficile da confessare ma non ha
neppure dignità d’ascolto.
Il merito di Piergiorgio Paterlini con I brutti anatroccoli è aver infranto un tabù, raccogliendo dieci storie di ordinaria infelicità. Storie di solitudine e respingimenti, di paure e “neutralità” sentimentale dove la parola neutro – quella che più ricorre nelle testimonianze – sta a indicare gli immensi ghiacciai di indifferenza in cui si infrange uno dei bisogni primari di uomini e donne ossia quello di essere desiderati. Non l’amore quotidiano, che seppure a fatica può anche arrivare. Ma la passione fisica che trafigge, il desiderio ardente che prescinde dalla testa. E non c’è differenza tra l’operaio di un piccolo borgo vicentino e il primario di Varese, la traduttrice un po’ avanti negli anni e la giovane giornalista di circonferenza larga che può entrare negli spogliatoi dei calciatori perché nemmeno se ne accorgono. Non è una questione di classe né culturale né di specie antropologica. È la nostalgia di una bellezza che non si può ricevere – annota Paterlini – perché non la si può donare.
«Mi sembra di essere un prodotto lanciato male sul mercato», dice un’operatrice fiorentina. «Una caramella con un incarto sgradevole». «Io non mi sento
un uomo, tutto qui», taglia corto il luminare di medicina. «Non essere considerati è una piccola morte», spiega uno studente di Perugia. «Se non piaci, esisti di meno». Solo la sensibilità di Paterlini, già autore di Ragazzi che amano ragazzi e Fisica quantistica della vita quotidiana , poteva dar voce a un’emozione così imperscrutabile, scavando nei recessi segreti dell’infelicità. Alla bruttezza non ci si rassegna, e combatterla può costare una grande fatica. Perché ci si sente un po’ colpevoli e ci si prodiga per nasconderla dietro l’intelligenza, l’humour, il buon carattere. Eppure viene naturale controbattere che il fascino di una persona può balenare da un’imperfezione, da uno sguardo, dalla personalità. «Tutte balle», obiettano i brutti anatroccoli. Così come respingono con veemenza i pietosi cliché intorno alla loro condizione. Se c’è una cosa che certo non manca ai dieci protagonisti è lo sguardo affilato fino alla spietatezza, verso se stessi e gli altri. Tra brutti non corre solidarietà. Amano la bellezza, come tutti. «E non accettare la bruttezza», dice un ragazzo, «è solo parte dell’odio che si prova per se stessi».
Insomma un dramma senza soluzione. Senza consolazione, aggiunge Paterlini, e senza colpevoli. Ce lo dice anche la letteratura, attraverso cui lo scrittore compie un suo personale viaggio. La Tosca di Ugo Tarchetti è troppo brutta per essere amata. Ma non è sua la colpa, né dell’ufficiale che la rifiuta. Così Cirano non è responsabile del suo naso né Rossana dei suoi sentimenti. La bruttezza è un mistero, non meno della bellezza. Solo molto più dolorosa. Uscito la prima volta vent’anni fa, I brutti anatroccoli viene ripubblicato ora da Einaudi. Nel frattempo la mortificazione della bruttezza è anche peggiorata, anche per la divorante ansia collettiva di nasconderla. E oggi «l’importante è esser belli dentro» non lo dice più nessuno.