Domenico Quirico, La Stampa 17/8/2014, 17 agosto 2014
BIBBIA E KALASHNIKOV. RAPHAEL, L’ULTIMO MONACO NELLA PIANA DI NINIVE
Dall’alto della collina, un sedile di sasso. La vedo di lassù, Al Qosh, aggrembata nella conca, le sue case e cupole e macchie alberate, con quella innocenza mansueta che le città, anche le più terribili e derelitte, assumono da lontano.
A girarvi dentro strada per strada, vicolo per vicolo, questa città cristiana d’Iraq era fino a pochi giorni fa tutta lucentezza e spavalderia. Ma da quassù essa è un’altra: non più l’addizione delle sue pietre, case e chiese, la città sembra buona e attonita come dietro un miraggio, dentro a un sortilegio che di lì a poco la dissolverà. Sembra sospesa al suo ultimo minuto, tra un grido di clemenza e una gigantesca paura che subito si abbatterà su di lei per cancellarla. Si è tentati di protendere la mano in una impossibile carezza.
Le poche luci adesso che si abbuia narrano a gara di felicità gentili, come se in ogni casa si adunasse a mensa una famiglia allegra e riconoscente a Dio. Ma per questo appunto Al Qosh è trista e fa dolore: perché completamente vuota. Tutti i suoi cinquemila abitanti, uomini, donne, bambini, sono fuggiti una sera alle dieci e trenta quando un grido li ha sferzati: «Arrivano gli uomini del califfo di Mosul, i soldati curdi scappano…». Era il sei agosto. E allora via, sulle auto, i pick up, i trattori, a piedi lasciando le luci accese, il cibo nei piatti. Ci sono ancora le sedie rovesciate a terra davanti ai caffè con i bicchieri pieni di tè rappreso. Qualche uomo è tornato solo per fuggire subito. Perché le truppe del nuovo califfato sono a cinque chilometri da qui, in fondo alla pianura di Ninive. La terra di nessuno. Tra loro e la città un velo di peshmerga, i combattenti curdi.
Sto intento con l’orecchio, nel subbuglio del cuore, nel gocciolare degli attimi, intento con l’orecchio verso le case per sentire un rumore. Strade, clamori di mercati, brusio di botteghe, la vita come gli altri giorni, la vita dentro cui c’è anche la vita nostra, di cauti testimoni di questa tragedia, i suoni della città dentro cui c’è anche il battito del nostro cuore. No, la città tace. Gli islamisti sono, nei racconti, un’ombra, rumori, raffiche di mitra… dio è grande… Ma hanno messo in fuga decine di migliaia di persone. Più il Califfato ha i confini erosi dal massacro e più si strappa dal cuore nuovi guerrieri pieni di forza e di sangue. A Nord, a Sud, a Ovest, Libia, Sahara, Siria, Iraq… dappertutto battaglia, dovunque ci si volta la guerra è in qualunque punto di questa vastità. La macchia immensa dell’islamismo, macchia caotica e nera della quale intravediamo solo i bordi. In mezzo inni, olocausti, file di persecuzioni, e il cozzo, in lunghe nuvole e teorie di eserciti, di noi e loro, occidente e islam.
Gli ultimi curdi armati li ho incontrati in un piccolo villaggio, anche questo abbandonato, sulle rampe della montagna dove zampilla un torrente limpido alimentato da sorgenti nelle rocce: sorvegliavano, si direbbe, il casto sortilegio dell’acqua, questo elemento così carico di naturalità e di metafisica. Li comandava un vetusto «peshmerga» che ha fatto tutte le guerre: la guerriglia di Barzani contro Saddam Hussein; il tempo di esser perdonato per finire, soldato, nelle paludi di Bassora; sedici anni prigioniero in Iran mentre i figli crescevano senza conoscerlo. E adesso un’altra guerra con il califfo e gli islamisti di nuovo a pestare contro queste montagne.
Sorride, è felice sotto un grande arazzo che rappresenta San Giorgio infilzare l’eterno drago: «Ci sono buone notizie, stanotte gli americani hanno colpito, con le bombe, a Telkepe qui davanti a noi». I curdi: cento anni fa li abbiamo ingannati a Versailles, promettendo loro uno Stato e poi li abbiamo abbandonati nelle mani brutali di Saddam e ai suoi gas. Ora li coccoliamo, li riempiremo di armi perché ci tengano lontano il nemico che diciamo nostro e loro. Forse fidiamo troppo negli invincibili «peshmerga». Hanno messo su pancia, si sono fatti, sparito Saddam, un po’ borghesi.
Perché sono venuto in questa città fantasma? Perché ho incontrato padre Gabriel, il rettore del convento di Nostra Signora delle messi di Al Qosh. L’ho trovato a Zakho, la grande città non lontano dalla frontiera turca dove ha trovato rifugio con i suoi monaci caldei e migliaia di cristiani e di yazidi, quelli che chiamano adoratori del diavolo. Ma qui, nella piana di Ninive, nell’anno primo del Califfato di Abu Bakr, dio e il diavolo guardano, uno a fianco dell’altro, le loro creature spremute dalla sofferenza: il dolore, l’unica cosa che unisce davvero l’uomo a qualsiasi dio. Sono passato da Bodan, cittadina yazida abbandonata. Deserto anche il tempio bianco dalla strana forma di cono gelato, nell’ombra spessa un satana pentito e demiurgo osservava le offerte dei fedeli. Chissà se tornerà un giorno ad accudirlo un monaco eunuco come impone la regola.
Li ho visti i loro profughi a Zakho, gettati come cose nelle strade, sotto gli alberi. I materassi e le coperte stese a terra palpitano e tossiscono. Vedo la loro disperata solitudine come vedo loro. Ma giovani donne già sfaccendano con il poco che è rimasto, regine e serve delle cose, col nervosismo lieto e guerriero delle massaie sempre in ritardo. Altre che sono già madri, dagli occhi di smalto, timide e tenere, cullano i loro bimbi in culle di legno chiaro coperte di amuleti. E sembrano affascinate dalla vita come da una fiaba, da un sogno, nonostante tutto. Nella lotta contro i terribili patimenti continui sembra che ciascuna di loro sia sul punto di confessare, ecco quello che ho potuto, saputo, osato fare di fronte alla immane miseria che mi si è abbattuta addosso. Poi volgono il capo e riprendono a cullare.
Non racconto mai storie che non ho visto di persona; ma credo, voglio credere, non per il suo orrore ma per la sua pietà, a quella del mercato di Nakhasa, a Mosul, ora la capitale del Califfato. Lì dicono siano state messe in vendita come schiave mille donne razziate nelle città yazide e cristiane: 160 dollari l’una, per il piacere dei soldati di dio e dei cittadini sunniti osannanti e lascivi. C’è un musulmano che ne ha comperate tre, quanto poteva con i suoi mezzi: ma per liberarle e riconsegnarle ai parenti fuggiti. La guerra, eterna, dei giusti e degli ingiusti.
Ieri, secondo i curdi, ottanta di loro sono stati massacrati nel villaggio di Kocho, altri duecento, donne e bambini, portati via come armenti. Bisogna far qualcosa di grosso e di immediato per questa sterminata gente che soffre e sogna la felicità. Bisogna capovolgere il mondo, metterlo come un carro a ruote in aria. Come mi ha detto il monaco Gabriel: «Cristo non ha ribaltato il mondo?».
Allora padre Michael: «È semplice: o resteremo a sopportare sotto la “misericordia” di questi musulmani fanatici, o partiremo per sempre. E sarà così: tra cinque anni qui non ci sarà più un cristiano. Che ha fatto la chiesa, quella di qui e quella di Roma per noi? Niente. Il Papa ha mandato 40 mila euro per i cristiani di Iraq. Con rispetto, Santità, poteva darli ai cardinali per i loro viaggi. E gli Usa che hanno fatto? Hanno portato la democrazia e gli iracheni continuano a soffrire. Siamo traditi, abbandonati: l’agonia di Cristo non è stata la croce, è stata la solitudine di Getsemani. Allora questa è la fine, ad al Qosh tante volte i monaci sono fuggiti: davanti ai persiani, agli ottomani, ai curdi e ogni volta sono tornati, questa volta no, è la fine. Non ci può essere democrazia nell’Islam, la loro idea è non accettarci».
Ecco. Nel monastero di Nostra Signora delle Messi, il Vaticano dei caldei (nel convento antico sulla montagna nel sesto secolo fu segnata la pace con Roma), il portone spalancato, stagna un silenzio così profondo che sento i movimenti degli insetti tra gli alberi e l’erba del chiostro. Non soffia più il vento caldo del giorno e l’aria trasparente, tesa e sensibile, è sempre eguale, immobile. Sembra aver conservato nelle sue tese profondità tutto ciò che gli uomini, gli animali e gli uccelli hanno gridato e cantato in questi giorni, lacrime e pianti e allegre melodie, preghiere e maledizioni. E tutte queste voci immote e vitree nella città abbandonata l’hanno resa pesante, tesa e satura di una vita invisibile.
Sotto di noi era, infinita, la grande pianura di Ninive fitta di erba gialla, attraverso cui confluivano greggi di pecore e capre, abbandonate dai padroni che cercavano cibo belando, qualche capanna di malta, le colonne alte di fuochi misteriosi. E l’ultima pallida luce dorata che inondava la pianura, cadendo dall’alto della cresta di monti che la delimitava come dall’estremità del mondo e faceva pensare a una luce che continuasse all’infinito attraverso un pacifico spazio disabitato. Ma quello spazio non era pacifico e vuoto: a cinque chilometri… Ora mi aggiro nel monastero abbandonato, illuminato da pallide lampade che sembrano fuochi fatui, cerco una delle celle vuote dove dormire. Un cauto rumore, un’ombra che avanza nel chiostro: ha una maglietta mimetica, scarpe da soldato, kalashnikov alla spalla e caricatori. «Sono padre Raphael». È rimasto, racconta, al monastero, isolato guardiano. Ma perché questa divisa? «Perché se arrivano, vestito così, ho qualche probabilità di sopravvivere. Come monaco invece...».
Dalla finestrella della mia stanza lo vedo passare di ronda. Poi, nel cuore della notte, accende tutte le luci del convento che diventa un grande, accecante globo di luce. Forse davvero tutto questo finirà, diventerà rovine per l’arroganza dei massacratori. Ma dio non cessa di esistere, neppure quando gli uomini perdono la fede in lui. Durante le persecuzioni e gli esili è rimasto nascosto dietro scaffali di libri, nelle tasche di qualche bambino, dentro salotti e prigioni. Ha l’Eternità dalla sua. Qui mi sono sentito beato e insieme maledetto. Vorrei non esser salito su questa montagna e non vorrei andarmene mai.