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 2014  agosto 17 Domenica calendario

CUPERLO: «RENZI, IL JEANS L’HO PORTATO IO: ALTRO CHE AMICI»

L’abito fa il rivoluzionario. Il triestino Gianni Cuperlo apre il suo bel saggio autobiografico Basta zercar (2009) – dal dialetto della sua città: basta la pazienza di cercare e tutto prima o dopo si trova – con un singolare episodio del 1921, a Torino. Antonio Gramsci parla agli operai della Fiat e ci sono anche Piero Gobetti e Giuseppe Prezzolini. Quest’ultimo rimane colpito dal poco orgoglio con cui gli operai indossano la loro tuta o blusa: “Perché non domandate di meglio che di mettervi addosso le mode dei vostri avversari?”. Il rivoluzionario Cuperlo, da ultimo leader della Fgci, cominciò con un giubbotto di jeans, accanto a Occhetto e Veltroni. Ha lavorato a Botteghe Oscure ed è stato uno dei maggiori consiglieri di D’Alema. Alle trionfanti primarie renziane del 2013, è stato il competitor “rosso antico” del Rottamatore.

Caschetto biondo e jeans. Un contrappasso alla Nino D’Angelo prima maniera, ‘Nu jeans e ‘na maglietta, per un giovane mitteleuropeo di Trieste.

(Ride) Non ci avevo mai pensato, però poi anche Nino D’Angelo è stato rivalutato, un po’ come è successo a Jovanotti. Il giubbotto di jeans era un residuo tardo adolescenziale e non ero nemmeno più tanto giovane. Quella foto è del 6 maggio 1989.

Una memoria di ferro.

Noi giovani comunisti eravamo abituati alle mobilitazioni studentesche o contro i missili della Nato a Comiso. Quella manifestazione invece fu un’idea di Veltroni, in linea con il nuovo corso occhettiano: partito e Fgci insieme per il lavoro, per il contrasto alla droga. Finì con un concerto in piazza del Popolo a Roma.

Quel giubbotto è diverso dal chiodo di pelle modello Fonzie indossato da Renzi ad Amici, su una rete tv berlusconiana.

Ricordo che fu Nanni Moretti a dire che i ragazzi della Fgci erano cresciuti guardando Happy Days. La differenza è che lì ad Amici era tutto più curato.

Il romanzo di formazione di Renzi è tutto nel ventennio di B.

È una questione di generazione. Io ho scoperto la tv a colori per la prima volta nel 1972, in un bar della mia città, con le olimpiadi di Monaco. Mi sono formato sui tre canali Rai.

Nostalgia?

Oggi non metterei quel giubbotto nemmeno sotto tortura. La vera nostalgia è per altro.

Il Partito, con la P maiuscola?

Per due elementi sì. C’era un senso spiccato di comunità, con un tratto di gratuità nell’impegno e nella militanza. E, secondo , l’incontro con la politica era una palestra di civismo, non priva di durezza. Alle spalle avevamo anni tragici, dal terrorismo alla strage di Bologna.

La palestra non c’è più e per il Parlamento basta una nomina.

Ecco, nella Fgci questo aspetto delle istituzioni era marginale. Solo nell’ultima fase eleggemmo 4 deputati. Una novità che rompeva con la tradizione.

Oggi le istituzioni sono tutto, i partiti del ‘900 si sono estinti.

La mobilità sociale non rispamia le istituzioni.

In che senso?

Penso a un ragazzo di trent’anni. Se gli va bene ha un contratto di lavoro precario ma se per ventura partecipa alle primarie o è fedele a un leader di corrente si ritrova in Parlamento e il suo reddito è decuplicato.

Anche lei è deputato dal 2006: in giacca e cravatta.

Le rivendico. Sento la solennità di Montecitorio. Sarà banale ma è una forma di rispetto.

Quando la bandiera rossa fu ammainata, lei si portò a casa la targa della Fgci.

Fu la mattina dopo il nostro congresso di scioglimento a Pesaro. Era il Natale del ’90. A Botteghe Oscure noi entravamo dal portone di via Ara Coeli. Avevo un cacciavite e la smontai.

Poi?

L’ho fatta restaurare.

La conserva ancora?

No, l’ho regalata.

A chi?

Non lo posso dire.

Lei ha girato molti piani di Botteghe Oscure, era di casa lì.

Ho cominciato al quinto, da segretario della Fgci. Poi nel 1992 salii al sesto, da responsabile della propaganda e della comunicazione. Ricevetti una telefonata di Gillo Pontecorvo.

Il grande regista.

Mi raccontò che anche lui era stato responsabile della propaganda nel 1948.

Dal sesto poi?

Al quarto, all’organizzazione. Infine scesi al secondo.

Il santuario del Segretario.

Nel ’94, D’Alema divenne segretario del Pds e mi chiamò. Occhetto aveva fatto ristrutturare l’intero piano. Lì c’era la sala della direzione, un tavolo a ferro di cavallo per 40 persone. Eravamo un partito leninista. Il segretario era l’unico che parlava da seduto, tutti gli altri dovevano alzarsi. Lo fece anche Natta quando non era più segretario da un mese. Era tornato un semplice frate nel convento, parafrasando la sua nota frase.

Nel ’96, lei scelse la Canzone Popolare di Ivano Fossati per l’Ulivo di Romano Prodi.

Eravamo in riunione e la discussione verteva su Penso positivo di Jovanotti. Ma non convinceva tutti, c’era una frase sul Vaticano che divideva.

“Io credo che a questo mondo esista solo una grande chiesa che passa da Che Guevara (...) e arriva da un prete di periferia che va avanti nonostante il Vaticano”.

Esatto. A quel punto proposi la Canzone Popolare. Ho amato molto Fossati e il mio album preferito è La pianta del tè. Pensavo potesse funzionare.

Reazioni?

C’era Rosy Bindi che non conosceva la canzone, ma a Rosy piacque il titolo per via di quel riferimento “popolare” che poteva richiamare il Partito popolare. Alla fine Veltroni s’incaricò di chiamare Fossati per ottenere la liberatoria.

Altra hit cuperliana: Il cielo è sempre più blu, per lo scioglimento dei Ds e la nascita nel Pd.

Rino Gaetano è stato un genio e quella canzone ha un ritmo coinvolgente. Il ritmo è importante in decisioni del genere. Per Bersani, è stata scelta Inno di Gianna Nannini, è bella ma non ha il ritmo giusto.

In fondo, anche il Pd prerenziano non sembrava avere ritmo.

Abbiamo fondato il Pd in modo frettoloso. Ma non nei tempi, anzi. È stato il processo dei contenuti a essere frettoloso. Vede, anche questa attenzione alla figura di Berlinguer oggi meriterebbe una riflessione diversa.

Revisionismo rosso antico.

L’ultimo Berlinguer non fu affatto un leader sconfitto e non si può ridurre quella fase a una ridotta moralistica. Sono anni ricchissimi di spunti, dall’ambientalismo al pacifismo, che le leadership successive non hanno ripreso. Da allora la nostra identità è stata come sospesa in balia degli eventi. Abbiamo colmato i vuoti di potere, non di senso.

Lei torna berlingueriano mentre il suo ex leader D’Alema si mette a vendere vino.

Con D’Alema ho un rapporto di amicizia e di stima che dura da più di 20 anni. E non è un rapporto banale. Ha dei meriti indubbi , come quello di essere stato il principale artefice della vittoria del 2006.

Prima però c’è la Bicamerale dell’inciucio con Berlusconi.

La Bicamerale non è stata la sentina di tutti i mali e l’inciucio non c’è mai stato. Fu un progetto ambizioso, non un tentativo di golpe, che riformava le forme di Stato e governo e il sistema delle garanzie. Il limite vero di D’Alema è stato un altro.

Quale?

Ritenere che il partito non fosse più un soggetto riformabile. Così c’è stato un momento in cui, pur tenendo in mano il destino del centrosinistra, ha ceduto all’idea che la politica fosse personalizzazione. Alla base c’era anche l’analisi che l’Italia fosse un Paese moderato e che alla battaglia per il consenso si dovesse sostituire la tattica per le alleanze. La vittoria di Pisapia a Milano dimostra che così non è. Eppure c’era chi, tra di noi, sosteneva l’istituzione delle ronde democratiche per vincere al nord.

Renzi, invece, non rischia il linciaggio per inciucio.

Renzi, oggettivamente, gode di una corsia diversa. Berlusconi viola il santuario del Nazareno e il giorno dopo il popolo del Pd non vive l’evento come una profanazione. Col senno di poi, dico che non è stato Renzi a rilegittimare Berlusconi.

È il contrario?

Sì, è il capo stanco del centrodestra che lo legittima agli occhi del suo elettorato di destra.

Il patto del Nazareno al posto della Resistenza, nella riscrittura della Costituzione.

Quando metti mano alla Costituzione di Calamandrei e Terracini devi avere la consapevolezza che stai toccando la Bibbia laica del nostro Paese. Da qui alla fine del percorso mi auguro maggiore consapevolezza, mi spaventa l’idea di un governo dall’alto, senza partecipazione e senza mediazione.

Lei è stato presidente del Pd.

Per 38 giorni.

Renzi le rinfacciò di essere un nominato.

Non fu una risposta educata, ma il problema era più generale. Come quando da ragazzi non venivi invitato a una festa da ballo e ti sentivi escluso.

La festa da ballo del renzismo, sempre più affollata. Il nuovo presidente è Orfini, altra conversione.

I giovani turchi pensano di fare la sinistra del renzismo. La mia interpretazione è diversa e credo che ci sia spazio per una nuova battaglia.

Dentro o fuori?

Le battaglie si fanno sempre dentro. Extra ecclesiam nulla salus.

Le manca l’Unità?

La sua nuova chiusura è un dolore forte. Per farla ripartire è necessario capire che non potrà più essere l’organo del Pd e non potrà essere un giornale che fa la concorrenza a Repubblica.

Lei fu la testa d’ariete dei Ds contro l’Unità di Padellaro e Colombo che faceva scrivere Travaglio.

La metterei diversamente. Scrissi una lettera aperta per dire che la loro linea non era quella dei Ds. Per me non era una dramma e ho sempre riconosciuto che quella fu l’ultima stagione di successo dell’Unità.