Michele Di Branco, Il Messaggero 17/8/2014, 17 agosto 2014
CONTI IN SEI ANNI IL BELPAESE HA VISTO BRUCIARE 17 MILIARDI
GLI OSTACOLI
ROMA Se due aziende nostrane su tre, oppresse da burocrazia, tasse e corruzione delocalizzano e producono altrove le merci che poi vendono in Italia (lo dice uno studio di Mediobanca ), non si capisce bene perchè quelle straniere dovrebbero comportarsi in maniera differente. E infatti non lo fanno e si tengono debitamente alla larga. Può darsi che con il 2014 il vento stia cambiando (Etihad, ad esempio, è venuta in soccorso di Alitalia ) ma negli ultimi 6 anni il Belpaese sembra essere diventato un posto sul quale è poco conveniente scommettere. Il Censis ha calcolato che dal 2007 al 2013 gli investimenti stranieri diretti sono scesi da 29,5 a 12,4 miliardi con un crollo verticale del 58%.
IN SALITA
I momenti peggiori sono stati il 2008, l’anno della grande fuga dei capitali, in cui i disinvestimenti hanno superato i nuovi investimenti stranieri, e il 2012, l’anno della crisi del debito pubblico. Certo, chi più chi meno la recessione ha colpito tutti i Paesi industrializzati, ma l’Italia si distingue per la perdita di attrattività verso i capitali stranieri. Infatti nonostante sia ancora oggi la seconda potenza manifatturiera d’europa e la quinta nel mondo, il nostro Paese detiene solo l’1,6% dello stock mondiale di investimenti esteri, contro il 2,8% della Spagna, il 3,1% della Germania, il 4,8% della Francia.
LA PORTA STRETTA
Il problema è che per spingere gli imprenditori del pianeta a investire su di noi c’è bisogno di ispirare fiducia. E quella staziona su livelli bassissimi. Scrivono i ricercatori del Censis che l’Italia «ha un deficit reputazionale accumulato negli anni» a causa di corruzione diffusa, scandali politici, pervasività della criminalità organizzata, lentezza della giustizia civile, farraginosità di leggi e regolamenti, inefficienza della pubblica amministrazione e infrastrutture carenti. Niente male, no? L’Italia occupa un poco esaltante 65° posto nella graduatoria mondiale dei fattori determinanti per convincere gli stranieri a investire considerando le procedure, i tempi e i costi necessari per avviare un’impresa, ottenere permessi edilizi, allacciare una utenza elettrica business o risolvere una controversia giudiziaria su un contratto. Siamo ben lontani dalle prime posizioni di Singapore, Hong Kong e Stati Uniti, ma anche da Regno Unito e Germania, posizionati rispettivamente al 10° e al 21° posto. In tutta l’Europa solo Grecia, Romania e Repubblica Ceca presentano condizioni per fare impresa più sfavorevoli delle nostre. Tanto per esemplificare, per ottenere tutti i permessi, le licenze e le concessioni di costruzione, in Italia occorrono mediamente 233 giorni, mentre in Germania ne bastano 97 in Germania. Per allaccio alla rete elettrica servono 124 giorni in Italia, 17 in Germania. Per risolvere una disputa relativa a un contratto commerciale il sistema giudiziario italiano impiega in media 1.185 giorni, quello tedesco 394. Secondo la classifica del Reputation Institute di New York, che si basa su 42 mila interviste volte a misurare fiducia, stima, ammirazione, interesse verso una cinquantina di Paesi, nel 2013 l’Italia si colloca in 16ª posizione, ma abbiamo perso 4 posizioni rispetto al 2009, quando eravamo al 12° posto. Certo siamo bravissimi quando si tratta di rilassarci (l’Italia si posiziona in alto per quanto concerne indicatori come lo stile di vita) ma sprofondiamo in classifica per i fattori di sostegno allo sviluppo.