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 2014  agosto 17 Domenica calendario

STATUTI, BILANCI E DEMOCRAZIA INTERNA I PALETTI (ASSENTI) SULLE REGOLE DEI PARTITI


A un ragazzo italiano che, nell’agosto del 2014, di fronte all’ennesimo incontro tra Renzi e Berlusconi, volesse chiarirsi le idee sul ruolo e la natura dei partiti nella nostra democrazia sarebbe difficile dare una risposta convincente.
Il Pd è la forza politica che più assomiglia ai partiti del ‘900. La sua lenta metamorfosi lo ha trasformato dal partito di Berlinguer a quello di Renzi. Le feste «dell’Unità» sono diventate «democratiche», le sezioni più che di militanti sono piene di amministratori e funzionari. A cambiarne davvero la natura, però, sono state le primarie: oggi il Pd, che pure mantiene le sue forme (organi e statuto), è sopraffatto dal successo personale del suo leader. Che ha letteralmente il potere di fare quel che vuole: da quando è a Palazzo Chigi non ha lasciato, come promesso, la segreteria del partito, mentre sulle primarie le certezze del passato sembrano rapidamente essere venute meno (si vedano i casi di Piemonte ed Emilia-Romagna).
Forza Italia è un caso esemplare di quelli che in letteratura sono chiamati «partiti personali». Berlusconi ne è fondatore, presidente, finanziatore. Sono 20 anni (!) che il principale partito del centrodestra italiano coincide con la sua persona. E sono ormai più di tre anni che si è aperta la (inutile) corsa per la successione. Di fatto, la storia recente del Centrodestra — compresa la nascita di Ncd — è tutta ripiegata su questa interminabile lotta intestina.
Il Movimento 5 stelle è un caso singolarissimo, oggetto di ricerca da parte degli studiosi di tutto il mondo. Una sorta di esperimento in presa diretta. Il movimento nasce della combinazione tra le capacità comunicative di Grillo, la visionaria concezione della Rete di Casaleggio e la mobilitazione dal basso di un personale politico variegato. Ne consegue un’oscillazione tra l’autoritarismo del suo leader (che peraltro non si candida alle elezioni) e i tentativi di affermazione di qualche suo eletto. La sequela delle espulsioni e gli sforzi (più o meno fallimentari) per tentare di coinvolgere il «popolo della Rete» danno conto della evanescenza del M5S.
In comune, i tre partiti hanno la grandissima visibilità mediatica del leader, la scarsa democrazia interna, la lontananza dalla società e dai problemi reali delle persone e delle comunità.
Ascoltando una tale ricostruzione, il nostro ragazzo concluderebbe che oggi, in Italia, un partito (anche se pudicamente si preferisce chiamare movimento) è una qualunque organizzazione che, grazie al suo leader, è in grado di aggregare consenso elettorale. E così di vincere le elezioni e insediarsi nelle istituzioni.
Tali organizzazioni non hanno vincoli formali in tema di democrazia interna, trasparenza, contendibilità. Né hanno alcun impegno nel selezionare la classe politica. In un Paese fatto di mille identità territoriali, ciò crea lo spazio ideale per gruppi di potere locale che si insediano in questo o quel partito. Come il profitto per le imprese, così la vittoria elettorale è l’unico elemento di legittimazione. Ma, come sui mercati, anche in politica saper piazzare il proprio prodotto non basta a garantire la qualità.
A questo punto, il ragazzo si chiederebbe come mai, visto che le soluzioni tecniche non mancano (obbligo delle primarie, definizione dei diritti e dei doveri degli iscritti, garanzie per le minoranze, deposito dello statuto, trasparenza del bilancio) non si pensi a precisare la natura e il funzionamento del soggetto collettivo a cui viene affidato il delicato compito di raccogliere il consenso e selezionare la classe dirigente. Tanto più che, nel pacchetto delle riforme di cui si discute e che interesserà il futuro delle nuove generazioni, potrebbe accadere che una formazione politica, non meglio specificata e dominata da una ristretta oligarchia centrale, arrivi a controllare il governo, il Parlamento e il presidente della Repubblica. Con una notevole concentrazione di potere.
Ma, allora, il ragazzo capirebbe: la volontà di cambiamento, che a parole tutti professano, è in realtà solo apparente, se è proprio chi dichiara di voler rinnovare l’Italia a non volersi o non sapersi riformare.