Silvio Piersanti, il Venerdì di Repubblica 15/8/2014, 15 agosto 2014
VAGINART, O L’ARTE DELLO SCANDALO
TOKYO. Se ti chiami Gustave Courbet e dipingi una donna nuda riversa, con l’organo genitale sfrontamente esposto in primo piano, intitolando la tua opera L’origine del mondo, finisci al Museo d’Orsay di Parigi. Se ti chiami, o ti fai chiamare, Rokudenashiko (ragazza buona a nulla) e mandi in giro per il mondo, postandole sui social network, le istruzioni per riprodurre in 3D il tuo organo sessuale finisci in galera a Tokyo. Come è successo in questi giorni all’artista giapponese Megumi Igarashi, 42 anni, nota in patria con il suddetto pseudonimo, per una lunga serie di lavori che hanno come comun denominatore la sua vagina, in parte esposti con successo in una mostra a Tokyo, nel maggio scorso. È stata arrestata e rinchiusa in prigione con l’accusa di «diffusione via network di dati che permettono di ricreare forme oscene con una stampante 3D».
La polizia ha perquisito il suo studio e sequestrando venti opere, tutte basate sulla rappresentazione dell’organo genitale dell’artista, tra cui un kayak di due metri. Era per poter perfezionare quest’ultima opera, che inviava ai suoi fan le istruzioni per stampare il suo organo sessuale in 3D in cambio di una libera offerta. Al momento dell’arresto aveva ricevuto offerte pari a circa diecimila euro ed era appena apparsa in un video in cui pagaiava su una prima versione molto perfettibile del suo battello «vaginomorfo».
La «vaginartist», come è stata prontamente ribattezzata dai media, nega vigorosamente ogni intenzione di oscenità nel proprio lavoro e rivendica il diritto di scegliere i soggetti delle sue creazioni e di diffonderli con i moderni mezzi di distribuzione. «La vagina è ancora tabù in questo Paese» ha dichiarato. Non viene mai mostrata, neanche nelle pubblicazioni e nei film porno. «Io voglio demolire la muraglia di ipocrisia che la circonda. Fino agli anni della mia maturità, non sapevo neanche come fosse fatta questa parte fondamentale del mio corpo. Avevo paura che fosse una cosa mostruosa da tenere assolutamente celata».
Ed è davvero difficile giustificare la drastica presa di posizione delle autorità giapponesi se si pensa che è stato solo un paio di settimane prima dell’ordine di custodia cautelare per la «vaginartist» che il Parlamento giapponese, dopo decenni di totale permissività, si è deciso a mettere fuorilegge i possessori di materiale pedopornografico, escludendo però, ipocritamente, i fumetti manga e i video di cartoni animati, i due canali che più diffondono la florida pornografia infantile nel Paese.
Se vi capitasse di visitare la città di Kawasaki nella prima settimana di aprile vi trovereste immersi in uno frenetico e gioioso Festival del pene d’acciao. Vedreste folle di donne passeggiare leccando con evidente piacere gelati a forma di pene di ogni misura, colore e sapore. Le vedreste acquistare artistici peni scolpiti in legno, ammirare grandi sculture falliche, recitare preghiere al passaggio processionale di imponenti carri sovrastati da membri monumentali. Tutto senza il minimo aggrottamento di sopracciglia da parte delle forze dell’ordine, presenti per assicurare una pacifica celebrazione dell’antica festa della fertilità. Ma di un gelato a forma di vagina, al gusto di fragola o di banana, neanche l’ombra. Della possibilità di organizzare un Festival della vagina, poi (magari in un materiale meno duro dell’acciaio), non se ne parla nemmeno. Come se la fertilità fosse una prerogativa esclusiva del maschio.
Perché per la vagina niente festival? Perché no, è la jannacciana risposta che vi sentireste dare da bonzi, magistrati, sociologi, medici e gente comune.
È proprio per avere una risposta più sensata e meno maschilista, che la «ragazza buona a nulla» si batte da anni, mettendo pubblicamente al centro della sua creatività rappresentazioni della propria vagina.
Compito impervio in un Paese dove alla dogana lavorano indefessamente funzionari che grattano con le lamette i peli che fuoriescono dal bikini nelle foto di procaci bionde nelle riviste straniere per adulti, perché i peli pubici sono osceni. In un Paese in cui la prostituzione è proibita, ma dove il reato è commesso solo al momento della penetrazione: tutto quello che può avvenire in campo sessuale prima e dopo il coito vero e proprio è lecito, anche se ricompensato con danaro. In un Paese dove nelle vetrine di negozi specializzati sono esposte mutandine usate e non lavate (come garantito con espliciti cartelli) appena smesse da ragazze minorenni: indumenti doc che vanno a ruba a costi significativi. Ci sono locali dove, sborsando un sostanzioso supplemento, si può assistere al momento in cui smaliziate lolite, con studiate, lente movenze, dando le spalle a chi le osserva al di là di una parete divisoria, si sfilano gli slip che i clienti si affretteranno ad acquistare. In un Paese dove prosperano locali in cui si può ordinare un cognac a una graziosa cameriera con un’ardita minigonna, che indossa sopra un bikini microscopico, in modo che quando deve salire alcuni gradini per raggiungere la bottiglia di cognac, strategicamente situata vicino al soffitto del locale, il cliente possa godere di una generosa visione posteriore delle sue parti intime. E se ha perso qualche dettaglio e desidera un live replay, deve solo ordinare (e pagare) un altro cognac. E un altro ancora, spesso fino a una costosa sbronza. Ma se tentasse di allungare le mani, sarebbe immediatamente allontanato dal locale. In un Paese dove dozzine di studentesse delle medie con le loro gonne plissettate, calzettoni sino al ginocchio e camicette bianche immacolate distribuiscono ai passanti davanti alle stazioni più centrali della metropolitana volantini in cui si dicono disponibili a «incontri con regalo». In un Paese dove è ancora considerato volgare baciarsi in pubblico (e un po’ anche in privato) ed è sconveniente camminare mano nella mano, ma che dà vita a una delle più prospere industrie mondiali del porno. In un Paese, infine, dove, un paio d’anni fa, un uomo che ha deciso di vivere senza sesso, si è fatto amputare pene e scroto e li ha cucinati e serviti a pagamento a cinque commensali che hanno sborsato 250 dollari a testa, senza che la polizia potesse intervenire «per mancanza di leggi relative al cannibalismo».
In questo reame dell’anarchia sessuale l’arresto e la reclusione di una donna accusata di aver diffuso su internet le blueprints per realizzare copie 3D del suo organo sessuale appare veramente surreale e grottesco. «Abbiamo raggiunto il fondo dell’ipocrisia» s’infuria Kazuyuki Minami, suo avvocato. «La “ragazza buona a nulla” ha voluto dare una picconata a questo muro di falsità e rischia di pagarla cara: fino a due anni di prigione». Per sua fortuna, i movimenti femministi si sono svegliati dal torpore e hanno iniziato a raccogliere e sollecitare firme di protesta contro l’arresto dell’artista. Ne sono giunte decine di migliaia e le autorità hanno deciso di placare lo scandalo mettendo la donna in libertà provvisoria e ordinando un supplemento di indagini in attesa del processo. Esperti di diritto ritengono però che sarà praticamente impossibile per la «vaginartist» strappare un verdetto d’innocenza. Dovrà essere ben contenta se se la caverà con una pesante pena pecuniaria.
«Siamo consapevoli che le opere della signora Igarashi possono risultare sgradite a molti» ha dichiarato l’avvocato Minami, «ma nessuno può negare che siano il frutto della sua creatività artistica. Sentire empatia per un gesto che cerca di infrangere un mondo di falso perbenismo è una questione di sensibilità personale. In ogni caso, chiunque creda nella libertà e nell’uguaglianza di tutti gli esseri umani, non può che condannare l’arresto e la detenzione della mia cliente».
«Il Giappone rimane ancorato a una visione maschilista del sesso. Se una donna prova a esprimere artisticamente la sessualità femminile viene ostacolata in ogni modo. Tutta l’industria pornografica è indirizzata a soddisfare i desideri degli uomini» si infervora l’attivista Minori Kitahara, tra le prime a firmare la petizione per il rilascio dell’artista.
«Sto lottando contro una società ipocrita che si ostina a considerare osceno l’organo sessuale femminile» sono state le prime parole della «ragazza buona a nulla» all’uscita dal carcere. «La televisione fa ridicole acrobazie verbali per non usare la parola vagina. Ma questa» e con un rapido gesto sfiora l’inguine è parte del mio corpo e ha pari dignità con qualsiasi altra parte. Non esiste alcuna ragione per cui possa essere considerata di per sé oscena. Continuerò a combattere con tutte le mie forze per il mio diritto a una libera espressione artistica, pronta a correre il rischio di tornare dietro le sbarre».
Silvio Piersanti, il Venerdì di Repubblica 15/8/2014