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 2014  agosto 15 Venerdì calendario

USA PRUDENTI E IL CALIFFO RINGRAZIA


Se gli Stati Uniti pensano di fermare il Califfato con qualche raid aereo e gli aiuti militari ai peshmerga curdi si sbagliano. E come curare il cancro con l’aspirina perché lo Stato Islamico (IS) ha una strategia, unire i sunniti dell’Iraq a quelli della Siria, mentre l’Occidente si trincera dietro la consueta ipocrisia, mascherando clamorosi errori di valutazione, gli stessi che accompagnarono l’ascesa di Al Qaeda e del jihadismo internazionale. L’annuncio ieri di Barack Obama «che presto i militari americani lasceranno l’Iraq» e continueranno i raid «per aiutare le minoranze» non si discosta da questa linea, prudente ma inefficace.
Il Wall Street Journal, ma anche altri media più benevoli nei confronti dell’amministrazione democratica, hanno accusato l’intelligence di avere completamente fallito le previsioni. «Abbiamo sottostimato forza, coesione e leadership dell’Isis», ha detto recentemente il generale Michael Flynn prima di lasciare la Dia (Defense Intelligence Agency). «L’avanzata dell’Isis è stata più veloce di quanto i nostri servizi prevedevano», ha ammesso nei giorni scorsi lo stesso Barack Obama.
Ma questa è soltanto una parte della storia, anche se già basterebbe a qualificare la leadership di un Paese dove il terrorismo islamico dall’11 settembre 2001 è al centro delle preoccupazioni politiche, senza contare che in Iraq gli Stati Uniti ci sono rimasti per otto anni, perdendo 4.300 soldati e bruciando 1.700 miliardi di dollari. A Baghdad è stata costruita la più grande ambasciata Usa al mondo, con duemila funzionari, e in Iraq ci sono 25mila contractor americani che lavorano in tutti i settori, da quello militare alle infrastruture, all’estrazione del petrolio. Mentre in Siria, oltre un confine tracimato da tempo, è in corso una guerra civile che da tre anni tiene impegnati tutti i servizi internazionali.
Ma è proprio la Siria il punto chiave. Se non si sconfigge qui lo Stato Islamico di Abu Bakr Baghdadi sarà assai complicato fermare il Califfato in Iraq. Mentre lo sguardo dei media e dei politici è puntato sulle montagne curde, si fa finta di non vedere che lo Stato Islamico ha effettuato con l’attacco al Kurdistan - dove è arrivato a mezz’ora d’auto dalla capitale Erbil senza incontrare resistenza - un’abile manovra diversiva per impegnare la comunità internazionale. Il Califfo Ibrahim vuole tenere sotto tensione il Kurdistan ma questa è un’area dove gli arabi sono assai pochi, non fa parte dei suoi obiettivi: è un territorio di pulizia religiosa e settaria per scacciare cristiani e yazidi. Sta invece mettendo a segno un’avanzata in Siria conquistando una città dopo l’altra, sottraendole ai gruppi jihadisti rivali di Jabat al Nusra. È alla periferia di Aleppo e si è impadronito di una serie di centri ai confini con la Turchia, membro della Nato, che gli consentiranno di saldare un arco di influenza che va dalla Siria fino a Mosul e oltre.
Anche se dovesse arretrare in Iraq, cosa da non escludere nel momento in cui le tribù sunnite venissero incluse nel nuovo governo di Baghdad (ieri sera il premier uscente Nuri al-Maliki ha confermato il suo ritiro a favore della candidatura di Haider al-Abadi), il Califfo potrà contare sul santuario siriano, dove controlla dighe, centrali elettriche, pozzi di petrolio e le vie di comunicazione verso la Mesopotamia. È così sicuro di sé che un suo portavoce ha persino ringraziato la Turchia dell’ineffabile neo-presidente Tayyip Erdogan per avere aiutato, fino a pochi mesi fa, le reclute dello Stato Islamico ad attraversare indisturbate la frontiera.
Per bloccare il Califfato, gli Stati Uniti e le potenze europee devono trattare con il regime di Bashar Assad che l’anno scorso, se non li avesse frenati Putin, avrebbero bombardato con esiti disastrosi, oggi facilmente prevedibili. Stati Uniti, Europa, monarchie del Golfo e Iran, l’alleato fondamentale di Damasco, dovranno sedersi al tavolo per decidere cosa fare di un regime che per quanto macchiato di crimini forse è meglio non disintegrare del tutto visti i precedenti iracheni.
In Siria l’ipocrisia dell’amministrazione americana ha raggiunto livelli insostenibili: continua ad affermare che bisogna appoggiare l’opposizione "moderata" sapendo perfettamente che è già stata inghiottita da gruppi islamisti sempre più radicali, fagocitati anche loro, alla fine, dallo Stato Islamico. Se il passato insegna qualche cosa forse sarà meglio non commettere gli stessi errori appena compiuti in Iraq. Ma per ora il Califfo ringrazia.