Marco Cicala, il Venerdì di Repubblica 15/8/2014, 15 agosto 2014
PROFESSIONE ENIGMISTA
Primo rebus risolto a nove anni. Primo pubblicato a undici. Quasi cinquemila giochi inventati fino a oggi per La Settimana Enigmistica, dove fu assunto nel 1982 e di cui è adesso condirettore. Come si diventa enigmisti? è la domanda più cretina che si possa rivolgere a uno che di cognome fa Bartezzaghi. Classe 1959, Alessandro è il figlio di Piero (1933-1989), figura totemica della SE, ed è il fratello maggiore di Stefano, che da anni, sul Venerdì, ci fa viaggiare sull’ottovolante delle diavolerie linguistiche. Ma con le parole Bartezzaghi (Alessandro) si diverte ancora oppure la routine s’è pappata tutto il piacere? «Costruire un cruciverba significa dieci minuti di creatività iniziale e poi incroci. Giù incroci. L’autore di rebus è uno scattista, chi fa cruciverba un mezzofondista». Dietro uno schema riuscito c’è qualcosa di simile a un’ispirazione? «Beh, io vado in giro col moleskine. Se mi capita di leggere, orecchiare una parola, un’espressione che mi pare possa funzionare per un gioco, prendo appunti. Ultimamente son riuscito a metter dentro cose come cerchiobottismo o servizi socialmente utili» rivela con comprensibile fierezza. Già, perché anche nell’enigmistica se non ti aggiorni avvizzisci e buonanotte ai solutori. Te li perdi per strada. Il popolo degli enigmisti conterebbe in Italia sette milioni di persone, una ventina le testate di giochi. «Devi sempre cercare di restare sintonizzato con la cultura di base dei lettori. Che oggi cambia a ritmi rapidissimi. Esempio: un tempo, col nome Cary Grant potevi camparci di rendita per decenni. Adesso la notorietà di certi divi è più volatile. Quanti si ricordano chi era, che so, un Matt Dillon? Lo stesso vale per le parole, sempre più caduche. Pensi a fax o a compact disc, termini quasi in disuso, perché quelle cose sono state superate». Non solo. «Fino a trent’anni fa un inventore di cruciverba poteva ricorrere ai nomi della mitologia greca, ai titoli o ai personaggi dell’opera lirica, perché sapeva che quella roba faceva parte del medio bagaglio di conoscenze scolastiche. Tra l’altro i nomi di certi dèi funzionano benissimo in uno schema, ma se li usassi oggi mi prenderebbero per cervellotico» spiega Alessandro Bartezzaghi nel suo ufficio in redazione. Con gratitudine, confesso che tutto mi sarei immaginato tranne di venir ricevuto là dove si fanno tutti i giochi. Luogo che una leggenda – provvista di robusto fondamento – vuole irsutamente precluso a fan, ficcanaso o, che è lo stesso, giornalisti. Inutile suonare, qui non vi aprirà nessuno. D’altronde, sui citofoni di Palazzo Vittoria – felpato edificio anni Trenta al civico 10 di Piazza Cinque Giornate – mi pare che Settimana Enigmistica neanche ci sia scritto. Di che rafforzare i proverbiali misteri d’una rivista che in 83 anni di vita ha fatto della propria blindata invisibilità una forma di marketing, ricordava Bartezzaghi (Stefano) nel formidabile L’orizzonte verticale. Invenzione e storia del cruciverba (Einaudi). Forse non tutti sanno che della SE si ignora ancora quanto tiri, quanto venda (fino a 1 milione 289 mila copie, si sussurrò nel 2004, che oggi potrebbero aggirarsi intorno alle 800 mila) e quanta gente ci lavori, e chi sia davvero la schiva dinastia Sisini, che da sempre ne detiene la proprietà.
Alla reception, una signorina mi lascia in attesa accanto al busto del Cavaliere del Lavoro Gr. Uff. Dott. Ing. Giorgio Sisini Conte di Sant’Andrea. Baffetti a spatola, capelli tirati all’indietro… in effige, l’ineffabile fondatore – scomparso nel ‘72 – ricorda vagamente, ma in bello, Tiberio Murgia, quel caratterista sardo che nella commedia all’italiana faceva sempre il siciliano geloso. Alle pareti, ingrandimenti di antiche copertine SE con su disegnati i volti fatali di Greta Garbo e Dolores del Río. Mentre seguo Bartezzaghi nelle profondità del corridoio, intravedo scrivanie con più libri che computer. Tanta carta. Perché alla Settimana, mi verrà spiegato, i processi di fabbricazione restano ad alto quoziente di artigianalità. «Con tutta la simpatia, ma per scrivere una definizione esatta non puoi fidarti di Wikipedia». Dunque scaffali gonfi di enciclopedie, dizionari, palizzate del Libro dei fatti. E ovviamente repertori dove le parole sono ordinate per radice e desinenza, «perché contengono certi gruppi di lettere o, metti, una F al terzo posto». È che nella testa del cruciverbista «i vocaboli sono catalogati per difficoltà. Anche se magari non sai bene cosa significa un termine, sai qual è il suo coefficiente di difficoltà. Noi le parole le vediamo come aggregati di vocali e consonanti, sequenze di caratteri. Prendi NGP: sembra un gruppo di lettere impossibile, ma nella nostra mente evoca subito piNGPong o sparriNGPartner». Ma quanti sono quelli che riescono a vivere solo di giochi? «Mi stupirei se in Italia arrivassero a venti. Fanno quasi tutti un altro lavoro».
Certo, coi software puoi ormai sfornare cruciverba a pulsante, «però la qualità del prodotto finito ne risente. Riesce meccanico, freddino». Morale: nelle segrete stanze devoti alla missione. Anche per evitare errori. Che però – sotto lo sguardo dell’arcigno solutore – sono sempre stati pochissimi. Per evitarli, il Cavalier Sisini aveva messo a punto un sistema di verifiche e controlli incrociati che è degno d’una Ghepeù e ancora fa della SE un minuscolo avamposto di umana esattezza nell’era del grande pressappochismo digitale. Sparutissime, le sviste sfumano a loro volta nella mitologia. «Negli anni Ottanta» racconta Bartezzaghi, «parlando della battaglia di Balaklava, traducemmo per errore Light Brigade, brigata leggera, in Brigata della luce, attirandoci gli strali degli appassionati di storia militare». Tipetti suscettibili. S’incendiarono di sdegno anche quella volta che «per sbaglio definimmo i Mas, motoscafi da guerra usati nella beffa di Buccari, come i protagonisti dell’impresa di Alessandria d’Egitto, effettuata invece con i siluri guidati, detti maiali, dagli incursori della X Mas».
Rimangono invece materia litigiosa le definizioni di pinguino come buffo uccello («Ci dicono che sfenisciforme sarebbe più corretto di uccello») o del Radon come gas nobile («Non potete chiamarlo nobile, dato che intossica – ci scrivono. Ma resta il fatto che di gas nobile si tratta»). Nell’epoca del politically correct si aprono poi nuove frontiere di dissenso: «L’utilizzo della parola negro è sempre più inviso. E una volta Amnesty International ebbe da ridire su certe vignette con protagonisti i carcerati». Ciò detto, di politica ideologicamente intesa non c’è mai stata né mai ci sarà traccia sulla Settimana. Rivista di iperuranio neutralismo, nata nell’anno X dell’era fascista ma, non a caso, mai importunata dalla censura. Fanno dannatamente attenzione a non sbilanciarsi, alla SE: «In un numero pubblicammo un quiz su Massimo D’Alema e subito arrivarono lettere che ci accusavano di faziosità».
La Settimana Enigmistica ha raccolto la sfida del web e del tablet sbarcando su web e tablet. Per quanto concesso, senza snaturarsi. «Devi continuare a fare un prodotto classico, con i suoi codici visivi, i suoi stilemi di riferimento, che però non risulti nostalgico». A proposito di nostalgia, senti ripetere che il lettore medio della SE sarebbe un soggetto attempato, abitudinario, poco incline all’innovazione, insomma un conservatore. Dalle mie parti, se a vent’anni gli amici ti beccavano a cruciverbare, il commento più benevolo era: Me pari mi’ nonno... «Il fatto è» sorride Bartezzaghi «che oggi mi’ nonno non sta più col plaid sulla poltrona. Magari ha fatto il ‘68, è informato, ha dimestichezza coi nuovi linguaggi. No, tra i nostri lettori c’è di tutto. Anche se, certo, a dedicarsi agli enigmi è soprattutto gente con più tempo libero: pensionati, casalinghe...». Dopotutto, ci vuole mica un PhD al Mit per diventare dei solutori belva. Tutt’altro. «L’unico segreto per sveltirsi con i cruciverba è farli. Assorbirne i codici, gli automatismi». Altrimenti, sarebbe impresa rognosetta azzeccare definizioni tipo Il fiume che bagna Interlaken (Aar).
Chi non ha capito niente della SE, le rimprovera la grafica vetusta; un umorismo rimasto incagliato nei dintorni di Gino Bramieri; un’iconografia retrò, fatta di carabinieri alla De Sica, villanelle genere Lollobrigida, fustacchioni alla Maurizio Arena. Se non fosse che lo stile arcaizzante non è il vizio della Settimana, ma l’elisir della sua longevità. «E poi guardi che, seppur misuratamente, abbiamo inserito il colore, qualche foto... Perfino nei premi dei concorsi ci siamo rinnovati» si difende Bartezzaghi. Andrò a controllare. Scoprendo che anche nei premi si cerca una sintesi fra modernità e tradizione. Accanto a iPad, Smartphone, aspirapolveri robot, resistono atlanti geografici, enciclopedie degli animali, set con blocco e penna Parker.
Con Alessandro Bartezzaghi i patti erano che nell’intervista si sarebbe parlato di enigmistica, ma il meno possibile di Settimana Enigmistica nel rispetto della policy esoterica adottata dal giornale, soprattutto per difendersi dalla ferinità dei concorrenti. Perciò faccio macchine indietro tutta e gli chiedo di suo padre. Lui stacca dal muro un foglio incorniciato. È l’abbozzo ingiallito di un vecchio cruciverba, una di quelle pagine a quadrettini su cui Piero si metteva a intersecare parole. Era nato a Vittuone, un paese lombardo tra Milano e Novara, «da genitori che parlavano prevalentemente in dialetto». Un diploma da perito tecnico, lavorò alla Montecatini del Moplen. Intanto, a forza di risolvere cruciverba, s’era messo a inventarne. Se li lavorava dopo cena. Per mandarli alla Domenica del Corriere, poi alla SE. Che nel 1960 «gli offrì di entrare stabilmente in redazione, e il P. non ci dormì la notte» ricordava Stefano in un ritratto. Divenne autore raffinatissimo, dal lessico innovativo, dagli incastri di geniale vitalità. Divenne il Bartezzaghi di pagina 41. Ma quando i figli gli chiedevano: «Cosa devo dire se mi chiedono che mestiere fai?». Lui rispondeva: «Impiegato». Da ragazzino, Alessandro gli sottoponeva i suoi schemi acerbi e il genitore suggeriva: «Sostituisci mano con mago. Così puoi incrociarci Cartagine». A Stefano regalava cento lire per ogni cruciverba risolto. Produrre un Bartezzaghi gli prendeva tra mezza giornata e un giorno e mezzo. Scriveva poesie, amava la lirica e la solitudine. Morì troppo presto per assistere all’invasione Sudoku. Chissà che ne avrebbe pensato. Il figlio Alessandro non ne è troppo sedotto: «È un cruciverba senza parole, più gioco di logica che di matematica. Per i miei gusti un po’ ripetitivo e un filo alienante. Non a caso viene elaborato con i software».
Pare che durante le più plumbee riunioni a Botteghe Oscure Palmiro Togliatti compilasse sottobanco i cruciverba dell’Humanité, organo del Partito comunista francese. Il chirurgo Umberto Veronesi avrebbe invece confessato di ricorrere alle parole crociate per rilassarsi tra due interventi. Mentre Vittorio Gassman rivelò che il Bartezzaghi settimanale lo aiutava nelle fasi di depressione. Perché La Settimana Enigmistica è un paradiso tolemaico, rassicurante, protettivo, permeabile al nuovo solo in dosi contenute e con estrema calma. Un posto dalle regole chiare, dove nessuno bara al gioco. Universo ordinato, chiamatelo pure piccolo-borghese, dove le segretarie battono ancora a macchina e i naufraghi si ritrovano sempre su uno scoglio mono-palma; dove i ladri girano con piede di porco e mascherina; le mogli si lamentano dei mariti panciuti davanti alla tv e sulla spiaggia i mariti ritirano la pancia vedendo passare una bella ragazza in bikini. A chi accusava i cruciverba di essere uno strumento di repressione, conservatorismo, cieca obbedienza alle convenzioni vigenti l’enigmista Giampaolo Dossena replicava: «Sono favorevole al nozionismo delle parole incrociate, perché la base della cultura è la passione per le nozioni inutili».
Magari è anche per questo che facciamo i cruciverba un po’ alla chetichella. Perché ci secca di essere colti in flagrante delitto di inutilità. La beata solitudo del solutore.
Marco Cicala