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 2014  agosto 15 Venerdì calendario

LA STRATEGIA DEL 2%


È una questione di zero virgola, al massimo di un decimale. Quanto basta comunque per far sapere che la Cina in Italia c’è e investe, tanto da essersi messa in portafoglio partecipazioni per circa 4,8 miliardi di euro, più o meno l’1% della capitalizzazione di Piazza Affari. Tutte poco sopra il 2%, soglia oltre la quale scatta la comunicazione Consob sulle partecipazioni rilevanti, che preparano la strada alla prossima vista in Italia del primo ministro Li Keqiang, in agenda a ottobre, quando saranno trascorsi appena quattro mesi del viaggio di Matteo Renzi oltre la Grande muraglia. Ed ecco che da una parte il Paese si dimostra appetibile per gli investitori esteri, quasi a rimarcare quel «C’è fame d’Italia» pronunciato mercoledì 13 dal presidente del Consiglio in visita ai cantieri di Expo 2015. Dal canto suo la Repubblica popolare continua nella strategia di diversificazione e investe con una logica cinese, a lungo periodo, in settori che spaziano dall’energetico alla finanza, nei quali può acquisire competenze e tecnologia.
A marzo, quando dalle comunicazioni dell’autorità di vigilanza della Borsa emerse che la People’s Bank of China era entrata in possesso del 2,102% di Eni e del 2,071% di Enel, si iniziò a riflettere sulla possibilità che Pechino cominciasse a rivolgere le proprie attenzioni su società italiane dalle caratteristiche particolari. Così è stato. Tra giugno e i primi di agosto la banca centrale cinese ha reso noto di essere salita oltre il 2% in Fiat (2,001%), Prysmian (2,018%), Telecom Italia (2,081%) e da ultimo, spostandosi al settore finanziario, in Generali con il 2,014%. «Queste mosse della PboC vanno interpretate come piccoli segnali che la Cina è presente nei mercati internazionali (in parte anche per via del Partenariato trans-atlantico per il commercio e gli investimenti) e che sarebbero pronti a fare ulteriori acquisti. La Cina si muove sempre con passo felpato e questi ritocchi delle partecipazioni rientrano in questo tattica», spiega Michele Geraci, professore di finanza alla Zhejiang University e all’università di Nottingham, «Attenzione però a non farsi prendere dall’entusiasmo e credere che la Cina sia pronta a mettere mano al portafoglio in maniera indiscriminata. I cinesi sono investitori prudenti, che hanno subìto scottature in passato e quindi, sono ancora più attenti a non commettere errori. Va ricordato che la Cina ha un debito/pil complessivo (debito pubblico più debito privato, aziendale e personale) del 250%, o forse più, lo stesso livello dell’Italia! Quindi devono stare molto attenti».
A cavallo tra luglio e agosto è arrivata anche la firma dell’accordo per la cessione al gigante delle utility State Grid of China del 35% di Cdp Reti, che a sua volta controlla il 29% di Terna e il 30% di Snam (i cinesi avranno circa il 10% delle due società). Un accordo da 2,1 miliardi di euro, che rivitalizza il piano di privatizzazioni del governo e dà l’opportunità a Cassa depositi e prestiti di tessere legami con le controparti cinesi. Con questa prospettiva la società guidata dall’amministratore delegato, Giovanni Gorno Tempini, e dal presidente Franco Bassanini hanno ricevuto un invito ad aprire un ufficio permanente a Pechino.
La voglia cinese di Italia ricalca quella crescente di Europa, al centro di una recente analisi della Dagong Europe. L’opportunità di diversificare la valuta e la geografia degli investimenti cinesi fa da traino alle previsioni di crescita della presenza di Pechino nel Vecchio Continente. C’è poi il sempre maggiore ruolo per gli investitori privati, che si possono accodare alle grandi aziende di Stato e alle istituzioni. Ma, come ricorda Geraci, «la Cina si muove in blocco, fa sistema Paese. La sequenza cronologica non è fondamentale, dal momento che quasi tutti i movimenti di investimento sono decisi all’unisono». Un altro fattore d’interesse è rappresentato dalle regole più rigide stabilite dagli Stati Uniti per gli investimenti cinesi dirottati quindi verso altre mete. Già nel 2011 l’Europa rappresentava la terza destinazione per gli investimenti diretti esteri cinesi, dietro l’Asia e l’America Latina. Gli stock di capitale sono passati dai 6,3 miliardi del 2009 ai 20 miliardi del 2011, anno in cui il flusso di investimenti è stato di circa 7 miliardi. L’Italia si colloca tra i primi dieci Paesi, nella classifica dominata da Lussemburgo, Francia, Gran Bretagna e Germania, ossia le piazze finanziarie che si contendono il ruolo di hub europeo per l’internazionalizzazione dello yuan. Secondo Dagong Europe ci sono ancora margini di crescita, ma un’analisi più approfondita è rimandata ai prossimi mesi. L’attivismo della People’s Bank of China tra le quotate italiane ha però anche un altro fine. Come spiega Alberto Forchielli, socio fondatore del fondo Mandarin Capital Partners e presidente di Osservatorio Asia, si tratta di un’operazione di soft power. La PboC è presente ovunque, senza che questo sia reso noto. Le partecipazioni italiane sopra il 2% hanno lo scopo di far conoscere la presenza di Pechino nell’azionariato. È un modo per guadagnare consenso. Secondo un sondaggio pubblicato a luglio dall’istituto Pew, il 70% degli italiani vede di cattivo occhio la Cina e il 75% degli intervistati ritiene che la crescita economica cinese sia un male per l’Italia. Anche in vista della visita del premier Li, la strategia dei 2% serve quindi a ingraziarsi l’opinione pubblica.