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 2014  agosto 15 Venerdì calendario

LE BATTAGLIE SONO FINITE. COMBATTERE È INUTILE

Da uomo che di teatro e grazie al teatro vive, Carlo Cecchi sembra come rigenerato, pieno d’energia e vitalità, dopo aver messo in scena La dodicesima notte di William Shakespeare che ha debuttato al Teatro romano di Verona. In un tempo in cui tutti gli artisti, compresi i teatranti, sono letteralmente ossessionati dal consenso, Cecchi ha il vantaggio di guardare le cose di questo mondo con aristocratico distacco. Anche se questo non gli impedisce, come è ovvio, di gioire e molto per i risultati felici.
«È stato un piccolo miracolo», dice. «Tutto ha funzionato a meraviglia: i giovani e giovanissimi ragazzi della compagnia; la bellissima traduzione di Patrizia Cavalli, le musiche di Nicola Piovani, i costumi di Nanà Cecchi. Quando è così, il teatro mostra la sua suprema forza; oggi ancora più grande di ieri, direi. Perché finalmente sul palcoscenico accade qualcosa di reale, che ci strappa via da quel cancro assoluto e irreale rappresentato dall’informazione, la comunicazione, la rete. Sarò anche uno snob: ma faccio notare che il teatro è l’unica forma espressiva che sfugge alla trappola di internet. Sì, possono fare un video tratto da uno spettacolo e mandarlo in rete, ma questo non è teatro. Perché il teatro accade solo lì, in quella precisa unità di tempo e di spazio».
Forse le toglierò in parte questo suo buon umore, ma vorrei sapere cosa pensa della vicenda del Valle occupato.
«Che si trattasse di una cosa vergognosa l’ho capito da subito. Gli occupanti mi cercavano e così, un certo giorno, sono andato a incontrarli. Erano due maschi un po’ depressi e una femmina molto parlante. Dicevano cose da pazzi, soprattutto lei. Quali sono i vostri progetti? chiedo. E lei, senza batter ciglio, anzi con un certo sussiego: faremo in modo che il Valle diventi per la drammaturgia italiana quello che il Royal Court è per la drammaturgia inglese. Ora, dal ‘56, quindi da Look Back in Anger in avanti, il Royal Court produce e pubblica, con un ritmo crescente, una media di venticinque novità all’anno. E tra questi titoli ci sono tutti i più grandi: da Pinter e Stoppard fino a Sarah Kane. Capisci, e il Valle avrebbe fatto lo stesso per la drammaturgia italiana…
Va buo’… Mi dicono ora che la ragazza parlante abbia fatto una brillante carriera, in qualche settore del Partito, o del Comune».
Il Comune, appunto. Come giudica il comportamento delle istituzioni?
«Per lungo tempo il Comune si è mosso secondo una logica di basso cinismo e bieca stupidità: meglio così, si saranno detti. Se il Valle fosse libero, dovremmo gestirlo noi: pensa che rogna…E anche adesso, in apparenza rinsaviti, che fanno? Riconoscono comunque il “valore artistico” di quell’esperienza. Ma dico io: un teatro tra i più belli d’Italia, il più antico di Roma, dove hanno cantato i più grandi cantanti e recitato i più grandi attori, finito in mano a una banda di pappagalli. Anche stranieri, aggiungo – che hanno applaudito a questo straordinario “evento”, pensa tu, del teatro occupato. Vorrei vedere se ai francesi gli occupassero l’Odéon o ai tedeschi il Berliner Ensemble. E io dovrei perdere le mie energie dietro a loro? No grazie, ho di meglio da fare. Anche se si trattasse di un nulla da fare».
Vuol dire che ha deciso di chiamarsi fuori? Non pensa che sia comunque giusto condurre a viso aperto la propria battaglia?
«Io non faccio nessuna battaglia e non mi chiamo affatto fuori. Ho un legame profondissimo con questo paese. Avendo avuto la fortuna di nascere qui, ho sviluppato una speciale sensibilità verso la bellezza, in tutte le sue forme. Anche se la parola “bellezza”, ormai, è sputtanata, inutilizzabile. E poi ho un legame profondo con la mia lingua. Io recito. E recito in italiano. Amo enormemente il teatro e per farlo utilizzo uno strumento che è il mio corpo, che però si esprime verbalmente
in italiano. Questa è la mia unica battaglia, anzi è Mein Kampf! Di certo non partecipo al cosiddetto dibattito culturale, anche perché non mi pare ci sia alcun modo per azzardare orizzonti diversi da quelli imperanti».
In passato forse non era così. Un articolo di Pasolini sulla scuola o l’aborto smuoveva qualcosa. La sua parola incideva sul contesto circostante.
«È per lo più un’illusione retrospettiva. Ha inciso sì, ma solo nel senso che l’ha condotto alla morte: per se stesso, ha inciso. L’orribile omicidio di Pasolini ha rappresentato il prologo di orrori futuri, conclusi con il sequestro e l’assassinio di Moro… E dopo questo periodo terrificante, che cosa è successo? Tutto rimosso, è arrivata la Milano da bere e sono i arrivati i ministri che scrivevano i libri sulle discoteche. Poi, a seguire, grazie al capolavoro del Cavaliere, la presupposta opposizione ha dato luogo a un processo di assimilazione mimetica con il presupposto avversario. Ce lo dimentichiamo troppo spesso, ma il guaio principale di questo paese è culturale, prima che politico».
E si è progressivamente imposto un hegelismo d’accatto: il reale è razionale. Dunque è inutile perdere tempo immaginando altri scenari, altre possibili realtà.
«Ma questo è un problema che riguarda l’intero occidente. Prendiamo, di nuovo, l’esempio del teatro. A Parigi gli spettacoli francesi ti fanno cadere le braccia. Le uniche cose interessanti arrivano da altri luoghi, estranei alla tradizione occidentale: vengono dal Sud Africa, dall’Afghanistan, dalla Palestina… È come se la vitalità europea si stesse spegnendo. E siccome l’Italia rappresenta da sempre un rivelatore particolarmente sensibile dello stato di salute europeo, noi siamo in pole position. Sia nei momenti alti, che nella frana attuale».
E allora dove cercare alimento per la propria esistenza?
«Altrove. Ad esempio in società più vitali, dove l’effetto di spiazzamento risulti più forte. Ricordo il meraviglioso riposo mentale avvertito in Iran grazie alla totale assenza di pubblicità, in ogni sua forma. Una vera e propria ecologia della mente, che si è ripetuta poi nel Camerun. Per sgomberare il campo dalle infinite tossine che ci affliggono bisogna cambiare scenario. Il teatro in fondo, con altre modalità, questo rappresenta. Perché consente di rianimarsi, di risvegliarsi alla vita. A Verona, durante lo spettacolo, il pubblico non era soltanto plaudente, ma grato. Quasi dicesse: ma allora esiste un altro modo di respirare!»
E di immaginare.
«Perciò Shakespeare è così attuale. Non perché nostro contemporaneo, ma perché incarna il trionfo dell’immaginazione. Lo si scopre giorno dopo giorno, lavorando dentro i suoi testi. È un autore totalmente privo di didascalie, ma più scavi e più scopri che le didascalie sono direttamente nel testo. Gli attori stessi dicono come va recitata una certa scena o una certa battuta. L’ennesima dimostrazione che l’arte tutta, ma Shakespeare in massimo grado, ci avvicina alla realtà più profonda, nascosta, che si può conoscere soltanto attraverso l’immaginazione. E questo tesoro, malgrado tutto, non andrà perduto».