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 2014  agosto 15 Venerdì calendario

RANIERO PANZIERI IL MARXISTA CHE LIBERÒ MARX

Non è un caso che sia Cesare Pianciola, torinese, autore di diversi studi su Karl Marx, a ricordare Raniero Panzieri in un saggio appena pubblicato nella collana “I quaderni dell’Italia antimoderata” del Centro di documentazione di Pistoia. Nel segno del marxismo si declinano infatti il pensiero e l’attività del fondatore della rivista Quaderni rossi, laboratorio e fucina della nuova sinistra degli anni Sessanta, che gettò le basi delle lotte operaie e studentesche del Sessantotto-Sessantanove. Panzieri morì a Torino, appena quarantatreenne, nel 1964, mezzo secolo fa. Come ha scritto Vittorio Foa, l’intellettuale nato a Roma, traduttore di Marx ed esponente di spicco del Partito socialista fino alla rottura con Pietro Nenni, condirettore di Mondo Operaio e poi redattore dell’Einaudi, da cui venne licenziato per ragioni politiche, «reintrodusse, in forma non scolastica o accademica ma militante, il marxismo teorico in Italia». Il suo ritorno a Marx, sottolinea Pianciola ne Il marxismo militante di Raniero Panzieri, «liberato dagli schemi dottrinari, riattualizzato per interpretare il capitalismo contemporaneo e per dare strumenti alla lotta di classe», si manifestò con originalità e con radicalità nei Quaderni rossi . Editi dall’Istituto Rodolfo Morandi, cominciarono a uscire nel giugno del 1961 ed ebbero tra i collaboratori, tra scissioni e nuovi ingressi, Romano Alquati, Alberto Asor Rosa, Luciano Della Mea, Rita Di Leo, Dario Lanzardo, Liliana Lanzardo, Edoarda Masi, Giovanni Mottura, Antonio Negri, Massimo Paci, Renato Solmi, Mario Tronti e molti altri. La «ricchezza di quest’esperienza», ha notato Asor Rosa, «(anche se sembra una battuta) è consistita nell’averla fatta», anche perché i Quaderni rossi hanno rappresentato «il momento della rottura del monolitismo della tradizione socialcomunista». Il marxismo di Panzieri, ha rammentato Sergio Bologna, sapeva «di fabbrica e non di cattedra o di sezione di partito». Nelle sue riflessioni, come in quelle degli altri redattori-militanti del periodico torinese, era centrale il tema dell’“inchiesta” operaia, sulla nuova classe operaia e sul neocapitalismo, da farsi sul campo. È proprio «l’insistenza panzieriana sull’inchiesta», ha detto Goffredo Fofi, «il suo privilegiamento della componente “sociologica” del marxismo su quella politica dei suoi cultori d’allora», a «far pensare a una presenza di Panzieri oltre quegli anni». Praticava, ricorda Pianciola, «un uso socialista dell’inchiesta operaia», che permetteva ai militanti «di sfuggire ad ogni forma di visione mistica del movimento operaio». L’“osservazione scientifica”, sociologica, era «soprattutto uno strumento in vista dell’azione politica che mira ad accrescere la coscienza dell’antagonismo».
Non è la sola eredità di Panzieri. Pianciola afferma che «rileggendo i suoi scritti, ammiriamo il suo coraggio di andare controcorrente, la sua volontà di esplorare nuove vie accettando il prezzo dell’emarginazione, e la sua ostinata speranza in un socialismo molto diverso dai regimi autoritari che ne avevano usurpato il nome». Alla pari di Danilo Montaldi e di Gianni Bosio, oppure di Luciano Bianciardi e di Giovanni Pirelli, gli altri due protagonisti, per ora, della “Italia antimoderata”, sottratti all’oblio grazie alla collana editoriale diretta da Attilio Mangano e Antonio Schina, Panzieri era una «figura in cui è difficile separare lo studioso dall’organizzatore di cultura e di iniziative politiche». Il contrario esatto, insomma, dell’intellettuale (e del militante politico) del 2000.
Massimo Novelli, la Repubblica 15/8/2014