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 2014  agosto 14 Giovedì calendario

INTERVISTA A RAFFAELE CANTONE

INTERVISTA A RAFFAELE CANTONE –

Roma, agosto
Dopo aver combattuto (e in parte abbattuto) i Casalesi, Raffaele Cantone aveva “parcheggiato” il suo eroismo al Massimario della Cassazione. Il compito: cavare massime dalle sentenze tributarie. Per uno così, come passare dalla trincea alla trance. Poi gli è tornata voglia di battaglia. Da un anno cercava una sfida a misura «della mia curiosità» (Cantone è un coraggioso che non crede nella parola coraggio). L’ha trovata. Da fine marzo, è presidente dell’Anac, l’Autorità nazionale anticorruzione. Un’idrovora, la corruzione, che ogni anno aspira dai nostri conti decine di miliardi di euro e che gli ha dato un fragoroso “benvenuto”: prima ha travolto il Mose e ora minaccia l’Expo. Insomma, il nemico è di quelli che farebbe venire l’insonnia a Pisolo. Cantone ci riceve nella sede dell’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici (Avcp), l’antenato dell’Anac.
Presidente, ma chi glielo ha fatto fare?
«Il mio dna di pubblico ministero: avevo bisogno di tornare a scoprire verità. E poi c’era questo pensiero che mi martellava in testa: è troppo comodo dire che si hanno le mani pulite, se ce le si tiene in tasca».
Eppure se ne stava così tranquillo in Cassazione.
«Ecco, forse stavo troppo tranquillo. È stato un periodo utilissimo, ma, diciamo così, “sabbatico”».
L’altro super commissario, Carlo Cottarelli (che si occupa di Spending review, ndr) è vicino alle dimissioni.
«Io sono più fresco, ho iniziato da molto meno. Finalmente ho la squadra al completo e poteri chiari e incisivi. Non solo non sono stremato: è adesso che devo dare il meglio».
La missione che la attende è terrificante.
«La corruzione è peggio della camorra».
Perché?
«Perché la società tende a sottovalutarla. Il corrotto viene visto come un furbo capace di aggirare gli ostacoli, non come un bandito. Serve uno scatto culturale. Il salto di qualità, nella lotta alle mafie, c’è stato quando è passata l’idea che “mafia uguale male”. Per la corruzione, questo salto non è ancora avvenuto».
È meno spettacolare. Non fa morti ammazzati.
«Ma anche la corruzione uccide. In modo meno visibile, ma forse più “vasto”. Uccide l’economia, la concorrenza, gli investimenti. Uccide il futuro dei ragazzi, che infatti fuggono all’estero».
Come si sconfigge?
«Con un mix complesso di prevenzione, trasparenza e repressione. Sulla trasparenza abbiamo fatto passi da gigante».
Il vero problema è la repressione.
«I fatti corruttivi devono essere puniti in modo rigoroso. Io non sono un “amante” del carcere. Credo che la vera punizione, per i corrotti, non sia la prigione, ma la confisca degli utili e soprattutto l’espulsione dal mondo sociale che conta: l’impossibilità di continuare a fare il pubblico amministratore o a fare l’imprenditore. Quanto meno per un certo tempo».
Una specie di Daspo…
«Sì, semplificando sì. Ma ripeto: se non passa l’idea della corruzione come male assoluto, è tutto inutile».
È un male, ho letto, che brucia 60 miliardi di euro all’anno.
«Non credo che sia un numero credibile. Ma la corruzione ha un livello di pervasività amplissimo. Se riusciamo a ridurla, l’economia riparte, e senza le temutissime stangatine di cui si sente parlare in questi giorni».
Ha detto ridurla. Sconfiggerla è utopia?
«Siamo realisti: eliminarla è impossibile. Esiste anche negli Stati più virtuosi. È, purtroppo, un fatto quasi fisiologico».
Noi, però, ci facciamo sempre riconoscere. Siamo nella sede dell’Avcp: uno dei suoi ex presidenti, Michele Brienza, è stato arrestato pochi giorni fa. Per corruzione.
«Sì, ma guardi qui: arazzi, affreschi, soffitto a cassettoni, 30 metri di stanza… Non va bene. Questa non è l’idea che io ho dell’anticorruzione. Il mio ufficio, all’Anac, è spartano e così lo voglio: sono dettagli, ma dettagli importanti».
Perché noi italiani siamo più corrotti e più corruttibili degli altri?
«È un problema di mentalità, oltre che di storia. Il controllo “occhiuto”, da noi, è visto come un fastidio anche dalle persone oneste. “Ma come” - si tende a pensare davanti alle nostre richieste di chiarimenti - “perché vieni a vedere nei fatti miei?”. Il fatto è che, quando c’è di mezzo il denaro pubblico, non sono mai fatti di qualcuno. Quando si gestisce denaro pubblico, bisogna essere in grado di rendicontare fino all’ultimo centesimo».
È un discorso un po’ grillino.
«È un principio di cultura tipico del mondo anglosassone, non l’ha inventato il M5S. Chiunque lo sostiene è benvenuto».
Secondo un dossier della Commissione Europea, da noi c’è «un quadro normativo di quasi impunità».
«Guardi, individuare tutti gli episodi delinquenziali è impossibile. In materia di corruzione ancora di più, perché è un reato in cui nessuna delle due parti ha interesse a far emergere il fatto corruttivo. Il corrotto ha ottenuto soldi o altro, il corruttore un vantaggio. Ci vorrebbero strumenti rivoluzionari. Io auspico di poter introdurre in questo ambito un istituto che si è utilizzato per lo spaccio di droga: l’agente provocatore».
Un finto corruttore.
«Lo usano in alcuni Stati di elevatissima democrazia, perché noi non dovremmo?».
Tangentopoli non ci ha insegnato nulla.
«È stata una grande occasione sprecata. Ha ragione Piercamillo Davigo: “Tangentopoli ha finito per rappresentare una sorta di selezione della specie: ha fatto rimanere sul mercato i corruttori più forti».
Cosa avremmo dovuto fare?
«Prevenzione, e da subito. La norma che ha introdotto gli strumenti preventivi della corruzione è arrivata solo nel 2012. Per 20 anni non si è fatto nulla, anzi si è lavorato per distruggere quel poco che c’era. Penso, per esempio, alla riforma del falso in bilancio».
Quel ventennio, e quella riforma, coincidono con Silvio Berlusconi.
«Non voglio entrare in questioni politiche. Ma bisognerebbe capire se Berlusconi è stata la causa o l’effetto di questa, chiamiamola così, apatia anti-corruzione. Molte di quelle modifiche “distruttive” non sono state calate dall’alto: sono state volute da pezzi importanti della classe dirigente. La legge sul falso in bilancio è stata votata con l’entusiasmo di grandi fette della società civile. Troppo comodo, e troppo facile, dare la colpa a Berlusconi».
Expo non è troppo vicina perché l’Anac possa agire liberamente?
«Noi non faremo sconti. I tempi di controllo, d’altronde, sono brevissimi: tra sette e 15 giorni. E finora Expo ha sempre accolto i nostri rilievi».
I maligni dicono che lei sia l’unica promessa mantenuta da Renzi. È d’accordo?
«No. Certo, nel mio caso è stato di un’efficienza straordinaria: ha indicato la mia nomina e poi l’ha fatta. E mi ha dotato di poteri concreti».
La carica di Presidente dell’Anac dura sei anni e non è rinnovabile. Dopo cosa farà?
«Dopo, Dio pensa. Io non dispero di tornare a Napoli, a fare il procuratore aggiunto».
Ci aveva provato, l’anno scorso, ma la sua candidatura è stata bocciata. Perché?
«Bocciata sia al tribunale di Napoli che a quello di Napoli nord. Per motivi “tecnici”, dicono loro: non era passato abbastanza tempo dalla mia nomina in Cassazione».
Io ho sentito dire che ci fossero soprattutto problemi “ambientali”.
«Non sono abituato a fare dietrologie, ma ho capito che non ero proprio gradito in quella Procura. Ne sono dispiaciuto, pensavo di aver instaurato rapporti ottimi con tutti. Certo, qualcuno mi aveva fatto notare che la mia visibilità era diventata eccessiva».
Invidia?
«La scoperta dell’invidia è stata un grande dispiacere. Mi faccia dire una cosa cattiva: il peggior prezzo lo paga l’invidioso. È un tarlo che ti fa star male fisicamente».
Se fosse stato Berlusconi a chiederle di fare il presidente dell’Anac, avrebbe accettato?
«Assolutamente sì. Purché mi avesse dato le stesse garanzie, gli stessi poteri. Io non ho preclusioni ideologiche. La lotta alla corruzione non è né di destra né di sinistra. E mi lasci un minimo di vanagloria: la mia nomina è stata votata all’unanimità, da Sel a Forza Italia, Lega e M5S compresi».
La concussione la preferiva com’era prima o “spacchettata”?
«Com’era prima».
Così avrebbe potuto condannare Berlusconi.
«No. Lo “spacchettamento” ha seminato un po’ di caos nel codice penale. Io la legge Severino la difendo: l’alternativa era non farla, e poi ha introdotto cose importantissime sulla prevenzione della corruzione».
Favorevole alla responsabilità civile dei magistrati?
«Nel 1987, al referendum, votai no. Ora sono favorevolissimo. Il magistrato deve essere civilmente responsabile. Il problema è individuare modi di responsabilità civile che non facciano danni ai cittadini. Che non rappresentino un’intimidazione del giudice e ne paralizzino il lavoro. Se domani io sto facendo una richiesta di commissariamento e qualcuno mi spara una richiesta di risarcimento di 50 milioni di euro, come faccio ad andare avanti?».
È vero che Renzi le aveva offerto il Ministero della Giustizia?
«No».
Avrebbe accettato?
«Mi avrebbe tentato».
Dicono che i rapporti tra lei e Renzi si siano un po’ appannati.
«Falso. I nostri rapporti sono sporadici, ma ottimi».
Falcone o Borsellino?
«Falcone».
Lei, però, nel 1992 scioperò contro la riforma, ispirata da Falcone, che istituì la Direzione Investigativa Antimafia.
«E forse è anche per questo che prima le ho risposto senza esitazioni “Falcone”: per lenire un rimorso. Quello sciopero è una delle poche cose di cui mi pento ancora oggi. A pelle già allora sentivo che scioperare fosse sbagliato: lo feci per sentirmi parte della categoria, ed è quasi un’aggravante».
Lei, che ha combattuto i clan di Mondragone e i Casalesi, ha scritto che fare il padre è il mestiere più difficile del mondo.
«E lo confermo: in confronto, fare il magistrato è una passeggiata».
Che voto si dà, come papà?
«Come impegno dieci, come “resa” sei: ho sempre fatto di tutto per esserci, anche durante il periodo più “caldo” dei Casalesi, ma qualcosa mi sono perso. Negli anni della Cassazione avevo recuperato terreno. A casa il mio studio è attaccato alla stanza di mia figlia Claudia. E lei, che fa Giurisprudenza, veniva sempre a ripassare accanto a me. Momenti intensissimi».
Una celebrità con cui si farebbe un selfie?
«Jorge Mario Bergoglio. Sono cattolico, lui sulla corruzione ha detto frasi importanti: spero di incontrarlo».
La politica la tenta?
«Non ci ho mai pensato in modo serio. Neppure adesso, che qualcuno mi ha fatto balenare l’idea di andare a fare il Presidente della Regione Campania. Diciamo che non sono contrario all’idea che un magistrato faccia politica. Deve, però, essere una scelta definitiva».
Lei vive sotto tutela dal 1999 e sotto scorta dal 2003: eppure ha sempre detto di non essere un cuor di leone, di non concepire il suo lavoro come una missione.
«La mia benzina è la curiosità: mi piace moltissimo capire, farmi un’idea dal di dentro di come funziona una cosa. Le soddisfazioni sono enormi: spesso mi chiedo perché mi paghino».
E quanto la pagano, se posso chiedere?
«Deve chiedere: 180 mila euro lorde all’anno. Ma poteva risparmiarsi l’imbarazzo: i nostri stipendi sono sul sito dell’Anac».