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 2014  agosto 14 Giovedì calendario

COSÌ È NATO IL NUOVO TERRORE ISLAMICO

Al tramonto Ferhad il bazarì esce per la preghiera. Quel giorno la famiglia è a Erbil e lui ha passato il pomeriggio in casa. In tasca porta le chiavi del negozio. La strada è deserta quando avvista un’auto carica di armi: pensa che siano i peshmerga curdi. «Alza le mani», gli intimano alle spalle. Tutti, soldati curdi compresi, erano già fuggiti da Makhmur, occupata dai jihadisti. Ferhad era l’unico rimasto. «Mi hanno portato al negozio per accertare se ero davvero il proprietario e non un agente del governo. Poi siamo andati in moschea, a pregare». L’imam aveva spalle larghe e una lunga barba bianca. I fedeli in prima fila indossavano jallabah e gilet scuri, come quelli afghani. A fianco, sul tappeto, tenevano kalashnikov e mitragliatrici. «Sono stato presentato all’imam dall’uomo che mi aveva arrestato: lo ha salutato dandogli un colpetto affettuoso spalla contro spalla. Un gesto che da noi non si usa. "Se vuoi restare vivo chiuditi in casa", mi ha ordinato. Sono uscito quattro giorni dopo, quando ho sentito in strada le prime voci in curdo».
Mohammed Salih, giornalista di Erbil che scrive per Al Monitor e Foreign Policy, ascolta il racconto di Ferhad in silenzio meditando sulle strategie del Califfato. «Nell’Isil, che ora si fa chiamare soltanto IS, lo Stato Islamico, ci sono molti stranieri: in Siria ne sono entrati oltre 12mila dall’inizio della rivolta contro Bashar Assad e alcuni erano già venuti qui dieci anni fa attirati dalla guerra agli americani e da Al Zarqawi".
Abu Musab al Zarqawi, che si proclamò Emiro di Al Qaeda in Iraq, spiega Salih, è il vero ispiratore del Califfo Ibrahim, Abu Bakr al Baghadi. «Giordano di origini palestinesi, era un reduce dell’Afghanistan che rivaleggiava con Bin Laden. Il suo obiettivo era scatenare una guerra civile settaria su larga scala e creare un califfato sunnita transnazionale». Venne ucciso dagli americani nel 2006 e Baghdadi ha ereditato la sua idea quando nel 2013 ha trasformato Al Qaeda in Iraq in Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (Isil)».
Ibrahim Awad al Badri, il vero nome di Baghdadi, nato a Samarra nel 1971, si vanta di essere un Imam con dotti studi coranici sufi e un’origine che affonda alla tribù di Maometto. Ma nel suo oscuro percorso di davvero notevole c’è che gli americani lo arrestarono nel 2004 per rilasciarlo nel 2009 in maniera inspiegabile: l’anno dopo era il capo iracheno di Al Qaeda.
Il Califfato è stato presentato come una legione straniera islamica. «È una visione parziale», dice Salih. «Le stime parlano di 20mila uomini armati, insufficienti a prendere città come Mosul, minacciare il Kurdistan, puntare verso Baghdad e stringere d’assedio Aleppo in Siria, spianando la strada ad altre conquiste, tra pulizie etniche, religiose e atrocità. In due settimane il Califfato ha aperto cinque fronti: contro l’esercito iracheno, i peshmerga curdi, il regime di Assad, l’opposizione islamica rivale e l’esercito libanese. Un raggio d’azione troppo vasto per poche migliaia di jihadisti».
Il Califfato ha messo a segno dei successi militari ma anche un risultato politico fenomenale, spiega Sahil. «Lo Stato Islamico non ha fatto tutto da solo ma si è alleato con le tribù sunnite e i gruppi baathisti degli ex di Saddam Hussein che avevano con i jihadisti un obiettivo in comune: rimuovere dal potere il primo ministro Nouri al Maliki. Cosa che gli è riuscita mettendo pressione sul governo di Baghdad e i suoi alleati, dagli Usa all’Iran. Senza questa azione devastante Haider Abadi oggi non sarebbe premier: con Maliki si rischiava un colpo di stato e una guerra anche all’interno degli sciiti».
Abu Bakr Baghdadi ha sfruttato abilmente il caos iracheno, come aveva già fatto prima saldando la guerra siriana e quella irachena in un unico campo di battaglia. Ma le vere cause della rivolta sunnita sono state la corruzione e le politiche discriminatorie di Baghdad, una formidabile propaganda gartuita a favore dei jihadisti nelle province di Al Anbar, Ramadi, Falluja.
Sfugge a volte la dimensione globale di alcune situazioni locali ma era stato proprio in queste zone che il generale Petraeus aveva avuto successo nel 2007 con la sua strategia di contro-insurrezione, collaborando con le tribù sunnite locali che mal sopportavano l’estremismo di Al Qaeda. Maliki, con il suo radicalismo settario, ha sgretolato il lavoro di Petraeus e aperto la via al Califfato.
Se è vero che l’IS ha dimostrato un’efficacia quasi sospetta nelle tattiche della guerriglia, la conoscenza del terreno gli deriva dal sostegno maggioritario che ha avuto nei clan sunniti. Altrimenti in Iraq non cade come un castello di carte una città di cinque milioni di abitanti come Mosul e in Siria un centro come Raqqa, insieme alla provincia di Deir Ez Zhor con i suoi pozzi di petrolio. Anche gli ex baathisti hanno dato una mano, lo dimostra il messaggio caloroso rivolto ai jihadisti con cui è riafforato alle cronache il braccio destro di Saddam, Izzat Ibrahim al Douri, da un decennio imprendibile latitante tra Siria e Iraq.
«Agli occhi dei sunniti il Califfato rappresenta una chance imperdibile per tornare sulla scena da padroni», dice Sehil. In Iraq al Qaeda, che si era già strutturata come uno stato nello stato, riscuotendo la tassa rivoluzionaria, praticando estorsioni e sequestri, ha scavato nel desiderio di rivincita dei sunniti, una minoranza che prima deteneva tutto il potere nelle Forze armate e nell’intelligence. Da un giorno all’altro con l’occupazione americana sono stati trattati come pariah. Mentre in Siria sono fondamentali le tribù beduine orientali, divise artificialmente dai confini coloniali, che condividono molte affinità con i sunniti iracheni. Questo è il piano di Baghdadi: con la fusione tra sunniti di due nazioni frantumate si colma il divario demografico in Iraq e si costruisce il Califfato. «Gli arabi, i nostri vicini, ci hanno pugnalato alle spalle», mi aveva detto sul fronte il generale dei peshmerga Saadi per giustificare la debàcle dei suoi soldati. Ma la verità è che il bazarì Ferhad a Makhmur è rimasto solo, per una coincidenza del destino, a scrutare l’orizzonte di un Medio Oriente che si sta inabissando.
Alberto Negri, Il Sole 24 Ore 14/8/2014