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 2014  agosto 14 Giovedì calendario

I TREMILA «CASI MARÒ» DIMENTICATI DAL GOVERNO


I due marò Salvatore Girone e Massimiliano Latorre sono sotto processo in India da tre anni. In attesa che il ministro degli esteri Federica Mogherini, tra una cena di gala e una candidatura europea, trovi il tempo di occuparsi di loro. Ma quello degli italiani detenuti all’estero è un problema di cui poco si parla e su cui la nostra diplomazia ha scarsissimo peso. Secondo gli ultimi dati dell’Annuario statistico del nostro ministero degli Esteri i reclusi sono infatti 3.422, contro i 3.303 dell’anno scorso. Di questi, 2.696 sono in attesa di giudizio, mentre solo 692 sono già stati condannati. L’Europa è il Continente con il maggior numero di casi (2.625, di cui 1.218 solo in Germania e 574 in Spagna), seguito dalle Americhe (490: 87 in Brasile, 81 negli Stati Uniti e 80 in Venezuela). I reati più frequenti sono quelli legati alla droga. «L’ultimo ministro che ha aiutato davvero i nostri connazionali incarcerati è stato Giulio Terzi di Sant’Agata» spiega Katia Anedda, presidente dell’associazione “Prigionieri del silenzio”. «Anche Franco Frattini è stato un ottimo interlocutore. Dopo di loro il vuoto. La più grande delusione è stata Emma Bonino: ai Radicali interessano solo i detenuti italiani per motivi elettoralistici. Mi proposero anche un finto sciopero della fame, ma io mi rifiutai». Con Mogherini la situazione non è migliorata: «Con lei non abbiamo ancora avuto contatti. Per fortuna alla Farnesina ci sono diversi funzionari ammirevoli per abdicazione».
La debolezza della nostra diplomazia affiora in molti casi. C’è la vicenda del produttore televisivo trentino Enrico “Chico” Forti, condannato nel 2000 negli Usa per “la sensazione” che sia stato l’istigatore di un delitto. In India due ragazzi, Angelo Falcone e Simone Nobili, sono stati in carcere tre anni, con l’accusa di traffico di stupefacenti, prima di essere assolti. Avevano firmato un documento di autoaccusa in lingua hindi. Tomaso Bruno ed Elisabetta Boncompagni, sospettati di essere due amanti diabolici, sono stati condannati all’ergastolo per il presunto omicidio di Francesco Montis, all’epoca il fidanzato di Elisabetta. Per le difese, però, quest’ultimo sarebbe stato ucciso da un malore.
Se India e Stati Uniti sono due super potenze mondiali, le Filippine sulla carta sono un paese con cui la Farnesina dovrebbe trattare alla pari. Ma la storia dell’ambasciatore Daniele Bosio sembra dimostrare il contrario. Il 20 agosto inizierà il processo per traffico di esseri umani a suo carico e sino a oggi la nostra diplomazia è stata timida, se non assente. Tanto da non essere intervenuta sul ministero della Giustizia filippina, che sino all’inizio del dibattimento potrebbe dichiarare la non procedibilità contro Bosio. L’uomo è accusato di aver portato tre ragazzini di strada a un parco acquatico, dopo averli ripuliti a casa propria. Un’attivista austrana di una ong lo ha denunciato alla polizia e ha dato il via a una rumorosa campagna mediatica contro Bosio. Il nostro ministero degli Esteri lo ha subito sospeso. I ragazzini hanno raccontato di essere stati lavati dall’ambasciatore e che questi indossava bermuda e un asciugamano. Ma Chico Forti è in carcere dal 2000 per il giudice della città di Binan Teodoro Solis che ha scarcerato Bosio non esistono al momento “prove forti” contro di lui e ha rinviato gli approfondimenti al processo. Il diplomatico, con un curriculum di volontario in scuole e associazioni che si occupano dell’infanzia, si è sempre proclamato innocente, ma anche per lui non sembra essere stato garantito il diritto alla difesa. Il giorno dell’arresto l’unità di crisi della Farnesina gli ha messo a disposizione tre numeri telefonici di emergenza, ma la prima risposta è arrivata dopo 18 ore. Nel frattempo Bosio aveva firmato una rinuncia ai propri diritti in lingua filippina. In molti paesi le prove vengono raccolte in modo ambiguo e gli interrogatori avvengono senza difensore. Sul suo sito la Farnesina specifica che il nostro apparato diplomatico si impegna a far visita ai detenuti e a fornire nominativi di avvocati locali, ma non a sostenere le spese legali (che possono costare centinaia di migliaia di euro).
E così ci sono famiglie che si vendono la casa per aiutare i famigliari reclusi all’estero. Colpevoli o innocenti che siano, i nostri connazionali avrebbero comunque tutti diritto a un giusto processo e in gran parte del pianeta questo è impossibile. Per non parlare delle condizioni carcerarie. Anedda, impiegata in una compagnia telefonica, ha iniziato a interessarsi del problema quando il suo ex compagno, il manager Carlo Parlanti, è stato condannato a 9 anni di reclusione per stupro negli Usa. «Ma le prove sono state costruite a tavolino» giura la donna, citando diversi consulenti. In ogni caso Carlo è tornato in Italia avendo contratto in carcere l’epatite C. Bosio ha condiviso per 40 giorni uno stanzone di trenta metri quadrati con 80 uomini e un secchio al centro della stanza come bagno. Per questo ha contratto la difterite, con dissenteria e problemi renali. Roberto Berardi, imprenditore di Latina, incarcerato in Guinea equatoriale, ha inviato le foto delle torture che avrebbe subito in prigione. I suoi accusatori sono legati al governo e la sua posizione è particolarmente delicata.
Ci sono poi i casi in cui dall’estero i nostri connazionali tornano dentro a una bara o in un’urna cineraria, dopo essere deceduti in circostanze misteriose. Negli ultimi anni è toccata questa fine ad almeno quattro connazionali trentenni in Canada, Francia, Messico e Repubblica dominicana. In quest’ultimo episodio i parenti di Mariano Pasqualin hanno chiesto un’autopsia, ma i suoi resti sono stati cremati in tutta fretta dalle autorità centro-americane. La situazione più inquietante, però, è quella denunciata sul sito “Prigionieri del silenzio” da un gruppo di detenuti italiani in Venezuela. Là nel 2012 ci sono state quasi 600 uccisioni in carcere e in certi penitenziari c’è un bagno funzionante ogni 300 reclusi. I nostri connazionali segnalano in particolare la presenza dei “pranes”, capi criminali a cui viene affidato dai militari il controllo delle carceri. Le esecuzioni sarebbero di diverso tipo: «Persone crivellate a colpi di mitra, impiccagioni; accoltellamenti, torture e sevizie di vario tipo» e i cadaveri uscirebbero dalle prigioni «tagliati a pezzettini con delle grosse motoseghe».