Adriano Scianca, Libero 14/8/2014, 14 agosto 2014
RAZZI SCENDE IN CAMPO CON LINO BANFI
Non si capisce dove finisca la realtà e dove inizi la finzione. Capita, infatti, che il pirotecnico senatore di Forza Italia, Antonio Razzi, finisca a recitare nel terzo capitolo de L’Allenatore nel Pallone, al fianco di Lino Banfi nei panni dell’indimenticabile Oronzo Canà. Banfi, Razzi: manca qualcun altro? Sì, in effetti, dato che si parla addirittura di un cameo di Robert De Niro. «Ne stiamo parlando, siamo soltanto all’inizio. Nella vita però non si finisce mai di imparare e quindi se son rose fioriranno. Faremo pure ‘sto film», ha dichiarato il parlamentare azzurro. Immaginarlo a provare le battute con De Niro è già uno spettacolo nello spettacolo. Del resto il fatto che il terzo capitolo della saga della Longobarda finisca per raccattare comparse in Parlamento è già di per sé significativo.
Il primo film girato esattamente nell’estate di trent’anni fa e approdato nelle sale il 26 ottobre 1984 pescava a piene mani nel mondo del calcio, coinvolgendo in cammei vari giocatori, allenatori, dirigenti e giornalisti sportivi. Ipotizzare una comparsata di un politico era un altro paio di maniche. Tre decenni dopo, il mondo del calcio si prende molto più sul serio e quello della politica molto meno. Non è stato esattamente un progresso. La prosa italo-abruzzese di Razzi, il suo gusto fulminante per la battuta strapaesana, la sua visione del mondo vagamente pulp da vecchio tombeur de femmes sono in effetti un po’ il simbolo di questo cambiamento. Quando è l’imitatore Crozza a dover rincorrere sul terreno della comicità il politico in carne e ossa, si vede che una mutazione antropologica è avvenuta, nel frattempo. E poi Razzi è una sorta di informale ambasciatore italiano nell’inquietante Corea del Nord di Kim Jong-un. E non è forse una trovata degna de L’Allenatore nel Pallone quella di diffondere nell’impermeabile Paese asiatico una fantacronaca dei Mondiali brasiliani in cui i nordcoreani spadroneggiano in lungo e in largo per fomentare l’orgoglio nazionale?
L’iniziativa, attribuita al governo di Pyongyang, era probabilmente una bufala, ma era quanto meno verosimile. Misteri del villaggio globale, così diverso dal mondo in cui Oronzo Canà muoveva i suoi primi passi. Fra l’84 e il 2014 tanta acqua è passata sotto i ponti, anche se persino nella serie A manageriale e fra i dettami del calcio business riescono ancora a spuntar fuori personaggi come il neopresidente della Figc Tavecchio, che è più facile immaginare davanti a un piatto di orecchiette insieme a Canà piuttosto che nella tribuna autorità fra statisti di mezzo mondo. È l’Italia profonda che resiste: quella dei Canà, dei Razzi o dei Tavecchio, industriosa e bonacciona, ma che fischia ancora alle donne e che parlando degli africani fa le battute sulle banane. L’Italia dei vulcanici presidenti di provincia di una volta, che oggi il latinorum di Lotito riesce solo sbiaditamente a evocare. Pensiamo ai vari Rozzi, Anconetani, ma anche a figure minori rese immortali dalle caustiche prese in giro della Gialappa’s. È il caso dell’ermetico Edmeo Lugaresi, presidente del Cesena sempre con la parola sulla punta della lingua, oppure di Giovanni di Stefano, che spadroneggiava nelle tv locali sostenendo che gli arbitri dovevano rispettare la sua squadra perché, arbitrandola, avevano l’occasione di «visitare il capoluogo». Era il presidente del Campobasso. In questo quadretto, le conferenze stampa in barese di Canà dovevano apparire quasi verosimili, così come l’italiano claudicante dell’ambiguo presidente, il commendator Borlotti interpretato da Camillo Milli.
E certo non si fatica a immaginare come Razzi possa calarsi in questo contesto. Basta solo rivedere il suo discorso in Senato dal fulminante incipit: «Il corridorio ferroviario adriatico costituisce opra stratregica...». Il grande successo del film, peraltro in gran parte successivo all’uscita al cinema della pellicola, è dovuto esattamente a questo effetto stile «com’eravamo».
Che poi è lo stesso motivo per cui il seguito del 2008 appare come un film dimenticabilissimo, fuori tempo massimo, in cui quel tocco di artigianalità non fa più tenerezza ma appare come un limite intrinseco della pellicola che strappa lo spettatore dalla sospensione dell’incredulità. Alla fine Banfi in persona finì per fare mea culpa, dichiarando: «Devo chiedere scusa a tutti quelli che mi vogliono bene per il sequel de L’allenatore nel Pallone, perché meritavano di più. Hanno speso poco, ne è venuta fuori una cosa misera, anche se il film ha incassato molto. Mi dispiace davvero».
Lo stile così retrò e a suo modo proprio così trash del senatore abruzzese riuscirà, nel terzo capitolo della saga, a ricreare la magia dell’episodio originale? Staremo a vedere. Le probabilità di ritrovare l’energia di trent’anni fa sono scarsine: nel frattempo è cambiato il cinema, è cambiato il calcio, siamo cambiati noi. L’unico mondo ad aver fatto passi indietro è quello della politica. Ecco perché la scelta di Razzi potrebbe essere davvero una opzione geniale.