Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  agosto 14 Giovedì calendario

«LA CHIAMAVO BETTY UN’AMICIZIA NATA NELLA VILLA DEI KENNEDY» [2

pezzi] –

«Per me lei era Betty. Voleva che la chiamassi con il suo vero nome». Come Lauren Bacall desiderava facessero gli amici. Mario D’Urso, avvocato ed ex senatore, era tra i suoi più cari. «È molto triste. Ricordo l’ultima visita che abbiamo fatto a Capri, qualche anno fa. Da un lato c’era chi non la riconosceva e dall’altro gente come Amina Rubinacci, tra le persone più eleganti dell’isola, che quando la incontrò in piazzetta si mise in ginocchio».
Un’amicizia, la loro, nata molti anni fa, nella mitica villa dei Kennedy di Cape Cod. «La conobbi e iniziammo a frequentarci perché adorava l’Italia e voleva sempre sentirne parlare. Non amava particolarmente la Francia e in Inghilterra andava solo per lavoro, la sua passione era l’Italia». Ci tornava quasi tutti gli anni: «A Venezia le piaceva stare sulla Giudecca. Per due o tre anni è venuta ospite da me, a Conca dei Marini, vicino Amalfi. Facevamo grandi gite, specie a Ravello, dove andavamo a trovare Gore Vidal: passavano ore a parlare di storia, arte, musica e cinema». Era quello che più ammirava in lei: «Di tutte le grandi star credo fosse la più preparata. Lei stessa era molto sicura della sua cultura. Ed era un’icona del partito democratico, quando si discuteva di politica teneva banco».
L’estate scorsa, per la prima volta, non sono stati da Jean Kennedy, agli Hamptons: «Lei trascorreva agosto tra New York e gli Hamptons. Era molto interessante starle vicino: sceglieva i film giusti, conosceva i posti buoni dove mangiare, specie il cibo cinese, che amava. E le piaceva andare a teatro». Negli ultimi tempi usciva meno «per via di Sophie, il cane che aveva preso. Non la lasciava mai sola, gli ultimi giorni li ha passati tenendola sul grembo». A New York, l’attrice «abitava in uno splendido appartamento pieno di ricordi, nel Dakota Building, palazzo di John Lennon e altri grandi. Attraversava la strada ed era a Central Park: ci andava sempre e, ai tempi in cui non c’erano i telefonini, sapevi che in certi orari la trovavi lì».
Una donna piena di curiosità, che alle frequentazioni hollywoodiane preferiva le sue amicizie: «Non amava i party o, per dire, il clan di Sinatra che affascinava le altre dive».
Il loro ultimo incontro è stato a febbraio: «Quando ero in America ci vedevamo almeno due volte la settimana. Cercavo sempre di farle conoscere qualche amico italiano. Una volta l’ho portata a Roma, in un ristorante c’era Carlo Verdone, la vide e impazzì». Tra i fan della divina Bacall, anche l’avvocato Agnelli: «Era noto: lui non si fermava mai fino alla fine di uno spettacolo o competizione sportiva. Una sera eravamo andati a vederla a Broadway, in Applause : era meravigliosa. Alla fine del primo tempo dissi all’avvocato: andiamo? Rispose: no, no restiamo, dovremmo anche salutarla alla fine dello spettacolo».
Avrà fatto piacere a lei che tanto amava l’Italia. «E il nostro cibo. Ma era anche capricciosa. Quando era da me si lamentava se il pane non era quello giusto e via dicendo. Era una diva. Anche in taxi, guai se l’autista sbagliava strada o iniziava a parlare al telefono... non gliele mandava a dire». Ma restava un’amica che si poteva chiamare in ogni momento. Ma proprio in ogni momento: «Ero a una cena, anni fa, e si iniziò a parlare della data di un film con Bogart. Ognuno diceva la sua, partirono le scommesse. Io mi allontanai un attimo e le telefonai. Tornai al tavolo con la data del film. E a chi ancora non ci credeva risposi: me l’ha detto Lauren Bacall».
Chiara Maffioletti

LO SGUARDO DI LAUREN ADDIO A BACALL, «THE LOOK» –

Hollywood Fu la diva in bianco e nero accanto a Bogart «Con profondo dolore ma anche con grande riconoscenza per la sua incredibile vita», i tre figli con la famiglia hanno annunciato ieri nel palazzo Dakota di New York la morte per un ictus di Lauren Bacall: il 16 settembre avrebbe festeggiato 90 anni e da sempre era detta «The look», «lo sguardo».
Una storia cominciata a Brooklyn da padre polacco e madre romena e finita in zona Upper West Side dopo aver attraversato la moda, il cinema e Broadway, dove nel secondo tempo della sua carriera fu regina in tre musical vivacemente femminili: Applause (da Eva contro Eva), La donna del giorno , Fiore di cactus , record di box office e nostalgia. Alta 1.73 e divinamente bella, elegantemente algida tipo Kidman, decisa a farsi sempre da sola l’onda e la frangia dei capelli e a non tagliarsi neppure un sopracciglio, da sempre in marcia per i diritti civili (fu detestata da McCarthy, lei detestava Bush), Betty Joan Weinstein Perske fu ribattezzata Lauren Bacall (nome materno) da Hawks che la considerava un perfetto incrocio tra la Garbo, Dietrich e Mae West e la lanciò nell’hemingwayano Acque del Sud . Sul set conobbe e l’anno dopo, nel ‘45, sposò (in quarte nozze per lui) Humphrey Bogart che per 12 anni, finché morì nel ‘57, la chiamò Baby indipendentemente dal numero di scotch bevuti. Meglio di Casablanca .
Fu uno di quegli amori di Hollywood travolgenti ma senza happy end, iniziato con la battuta Warner: «Se hai bisogno di me fischia, sai fischiare vero?». Bogey non se lo fece ripetere: e fu un matrimonio anche di ideali non patriottici, allietato da tre film (La fuga , Isola di corallo , il capolavoro noir Il grande sonno ), due figli e qualche pettegolezzo politically correct come quando Lauren si spese per la candidatura democratica di Adlai Stevenson o accavallò le gambe sul piano, battendo i tacchi sugli occhiali di Truman Capote che suonava. Amica di vip della cultura, brindando con Hemingway, Williams, Olivier, Eliot, Welles, l’ex modella che a 18 anni era sulla copertina di Harper’s Bazar , fu tra le prime a passare dal mondo della moda degli atelier della Settima strada. Conquistò due generazioni di registi, da Huston ad Altman (Health e Prêt-à-Porter ) fino a Lars Von Trier con cui lavorò nei due titoli brechtiani Dogville e Manderlay e fu lei a battezzare «rat pack» quel gruppo di ragazzi alticci con Sinatra, Dean Martin, Sammy Davis e Lawford, che faceva le ore piccole quando ancora l’etilometro non era d’obbligo. Con Marilyn e Betty Grable, tutte in Cinemascope Fox, fu nel gruppo di Come sposare un milionario ed era l’unica a riuscirci.
Fu donna forte e attrice coraggiosa, anche viceversa, affrontando magnifiche commedie sui due sessi, la Donna del destino di Minnelli e Il mondo è delle donne di Negulesco, gialli classici come Assassinio sull’Orient Express , un western come Il pistolero e due palpitanti melò freudiani: La tela del ragno o Come le foglie al vento di Sirk, dove meritava alla fine Rock Hudson.
Odiava la mediocrità e la volgarità che avevano offuscato il cinema, stigmatizzava gli americani «ieri puritani oggi evangelici», era intima radical chic di Katharine Hepburn e dei Clinton e dopo l’amato Bogey, ebbe fini mese difficili, tumultuose serate con Sinatra e seconde nozze (e terzo figlio) con l’attore drammatico Jason Robards.
Scrisse due volte l’autobiografia, ebbe l’Oscar alla carriera 2009, odiò la chirurgia plastica e fu a Venezia col paranormale Birth , sopportando, icona rassegnata, ogni domanda sulla ricerca del cinema perduto. Per l’American Film Institute fu la ventesima tra le leggende romantiche femminili, dopo Rita Hayworth ma prima della Loren. Ed era così proiettata nel futuro che sognava un film con Almodòvar o con Scorsese, per dare un bel finale alla lista dei geni della sua vita.
Maurizio Porro