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 2014  agosto 13 Mercoledì calendario

IL SORRISO DELL’INFELICITÀ

Il bisogno invincibile di buttar via la propria vita, il suicidio come atto liberatorio che cancella ogni disperazione non più sopportabile.
Diventa una notizia da prima pagina quando il suicida è una celebrità. Perché se sei celebre, e ricco, e hai una bella famiglia, se insomma hai tutto ciò che dovrebbe rendere felice la vita, non avresti la ragione, e soprattutto il diritto di ammazzarti, concesso a chi invece arranca in un’esistenza di privazioni o nella malattia, nell’abbandono o nell’estrema vecchiaia.
Se poi chi decide di farla finita è Robin Williams, la star di tanti film che ci hanno raccontato un’America geniale, come Good Morning Vietnam o L’attimo fuggente, bisogna andare oltre i tradizionali generici commenti, tipo le celebrità non sanno accettare il declino, la fama rende infelici, la ricchezza consente di affrontare le cure più costose ma non di guarire. E pensando a quando si andava a vedere certi suoi film con la sicurezza di divertirsi, ci si commuove ricordando che quel clown irresistibile viveva nell’infelicità, secondo la vecchia tradizione di “Ridi pagliaccio, ridi del duol che ti avvelena il cor!”. Noi ridevamo con Mrs. Doubtfire, Piume di struzzo, Una notte al museo , e tanti altri film di successo, mentre Williams da decenni entrava e usciva dalle riunioni di Alcolisti Anonimi o dai centri di disintossicazione da cocaina e altre droghe. L’ultima volta c’era stato un mese fa e forse questo ennesimo tentativo di salvarsi, a 63 anni, dai suoi demoni e dall’abitudine di tenerli a bada con il lento suicidio da alcol e droga, gli è sembrato ormai inutile. E si è volontariamente consegnato al suo destino. Del resto aveva cominciato con la cocaina assieme a John Belushi, ed era con lui quando l’amico morì di overdose. Come tante altre persone, non solo famose, Robin Williams cercava nelle droghe la cura alla sua depressione, un male grave e diffuso un tempo soprattutto tra i giovani e che invece da qualche anno colpisce la mezza età e da cui è molto difficile liberarsi, malgrado i tanti tentativi di cure, i tanti specialisti e le tante altre droghe che dovrebbero guarire.
Il suicidio quindi non è che la fase ultima e definitiva di una malattia che non ha nulla a che fare con il successo (o l’insuccesso). Con la droga certamente sì. E per esempio per tante persone famose (e no) che sono morte di overdose, non sempre si è trattato di un gesto volontario, di un suicidio. Forse voleva solo stordirsi la giovane Peaches Geldof, figlia del musicista, forse non intendeva morire Philip Seymour Hoffman trovato cadavere in casa sua con una siringa piantata nel braccio. Si danno per sicuri altri suicidi per droga, quello di Marilyn Monroe (anche se c’è chi sostiene che sia stata uccisa), quello della cantante Dalida, degli attori Alan Ladd, Charles Boyer, Margot Hemingway. Ma la certezza di morire, Mario Monicelli e Carlo Lizzani l’hanno messa in atto gettandosi da una finestra, lo scrittore David Foster Wallace impiccandosi, Luigi Tenco sparandosi. Robin Williams, nel caos dei suoi sentimenti e terrori, aveva cercato una sua normalità in tre mogli e tre figli, impegnandosi a far ridere il mondo; ma neppure l’amore della sua America è riuscito a guarirlo, e neppure la droga, e l’alcol, e i grandi medici, e il suo impegno a rifugiarsi regolarmente nei luoghi di cura.
Era un attore formidabile, eccitato nelle smorfie, incontrollabile nel chiacchiericcio, sentimentale nello sguardo, grandioso nei travestimenti: era un grande comico capace anche di commuovere, e a pensarci adesso, quel suo memorabile, nervoso, sfrenato modo di recitare forse era il segnale della sua pena quotidiana, del dolore nero che dà la depressione, che lo spingeva ad esporsi per farci ridere, per nascondere una vita che poteva essere serena e amabile e che invece ha contribuito, con la sua incapacità di affrontarla, a ucciderlo. Non con la droga, che forse per lui rappresentava ancora momenti di calma, un rifugio dall’inferno, ma con la crudeltà, l’odio di sé, dell’impiccagione.
Natalia Aspesi, la Repubblica 13/8/2014