Marco Neirotti, La Stampa 13/8/2014, 13 agosto 2014
DIETRO I SORRISI UN MONDO PARALLELO IN CUI S’INCROCIANO EGOISMO E AMORE
Il sorriso di suo figlio, un po’ timido e malinconico sotto la frangetta, era per lei il respiro. Ne aveva fatto l’home page del profilo facebook, lo portava con sé nelle fotografie che mostrava con la dolente forza di chi quel sorriso deve difendere dalla malattia ricorrente. Ma era lei la malattia, lei che, per vederlo accudito e curato, per sentirsi circondata da dedizione, gli iniettava di nascosto l’insulina nel letto d’ospedale.
Ora la madre - infermiera di 42 anni - è in carcere, in isolamento con l’accusa di tentato omicidio. Il figlio, 4 anni, è in ospedale dove, scoperta la vera origine dei disturbi, si studiano i danni e li si cura, se non sono irreversibili. La psichiatria e la legge si inoltreranno per i sentieri mentali della donna, che viveva nel ritratto di sé in un mondo parallelo creato a rischio d’uccidere, dov’era premurosa, dolce, indispensabile.
In una Sanità che arranca, è stata la perspicacia di un medico a salvare il piccolo. Lui s’è accorto che le condizioni del paziente cadevano dopo le visite di quella mamma premurosa. Ha verificato precedenti ricoveri nella cintura torinese prima dell’approdo all’ospedale infantile Regina Margherita. Le telecamere fatte sistemare in stanza dalla procura della Repubblica hanno mostrato l’infermiera che iniettava l’insulina al figlio.
Gli archivi custodiscono storie non intercettate per tempo e finite in tragedie oltre la fantasia di un regista. Negli Stati Uniti Marybeth Roe Tinning, classe 1942, fu condannata a vent’anni per l’omicidio di un figlio (forse quello fu l’unico che non commise) e navigò tra i sospetti di averne accompagnati a morire altri otto tra il 1972 e il 1985. In Gran Bretagna Sally Clark, avvocato, classe 1964, fu condannata per averne guidati a miglior vita due, poi fu assolta e scarcerata. Problemi psichiatrici e di alcol la portarono alla tomba nel 2007.
Si chiama sindrome di Münchhausen by proxy, o «per procura»: nella sindrome tout court si induce la malattia in se stessi per essere il centro dell’apprensione, in quella per «procura lo si fa su una persona cara, in genere bambini o anziani. Si ottengono gratitudine, attaccamento, si diviene indispensabili e amati, a volte c’è rivalsa verso un uomo ritenuto assente, al quale si dimostrano il proprio sacrificio, il ruolo, l’amore che si riceve».
Questa giovane donna ha potuto vivere, tramite la sofferenza del figlio, il mondo parallelo nel quale non era più un invisibile gatto grigio in una notte nebbiosa: amici, colleghe, medici protesi verso i misteriosi mali del bambino, verso la sua apprensione e la sua dedizione. Anziché dalla gioia di un figlio sano, le rassicurazioni venivano dalla candida stanza d’ospedale, dall’affaccendarsi dei camici bianchi, dagli esami, dalle provette, dalle parole di fiducia, dai miglioramenti dopo le cadute.
E’ difficile accettare il connubio di egoismo e ricerca d’amore che si impastano in una simile patologia. I periti diranno se di essa si tratta. La fa supporre il fatto che quello scoperto ora non era il primo episodio e che lei, infermiera professionale in un ambulatorio di un’Asl, conosceva bene le dosi, quali uccidono e quali mantengono una condizione di malattia. Sapeva che se voleva ammazzare bastava aumentare e nemmeno l’autopsia l’avrebbe smascherata. Ma non era un’assassina, era una madre straordinaria in quel suo mondo parallelo, e l’avranno giustamente apprezzata i medici: presente, precisa, capace di dominare l’apprensione, senza disordine, panico o ira. Affidabile.
In cella questa madre brucerà per l’assenza del sorriso un po’ timido che invoca aiuto, del viavai di medici e colleghi, dell’universo artificiale dove la circondava un formicaio protettivo di affetti. Nel mondo reale non è prigioniera delle sbarre, ma della sua angoscia più profonda: l’isolamento, che finirà soltanto quando si prodigheranno per la sua malattia, per lei.
Marco Neirotti, La Stampa 13/8/2014