Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  agosto 13 Mercoledì calendario

ALLA CONQUISTA DEL MONDO CON L’ARMA DELLA SIMPATIA

Ti ricordi quella volta che, durante l’intervista, l’interprete rideva talmente tanto da non riuscire a tradurre la risposta?... E ti ricordi quando fece l’imitazione di Ratzinger e poi improvvisò il rap sul «Papapanzer»? E quella mattina in cui, a Cannes per il lancio di What dreams may come, fece il giro della sala dopo essersi caricato in spalla l’enorme cartellone pubblicitario del film?
Ogni incontro con Robin Williams era una festa, uno show che travolgeva la liturgia noiosa delle conferenze stampa, una scoperta umana, un’esperienza di vita più che di lavoro. E la corrente d’amore tra lui e il pubblico, tra lui e chi lo descriveva, tra lui e chi ci aveva parlato, cresceva come un torrente in piena. La vita scoscesa di uno che sventolava senza paura la bandiera della vulnerabilità, di un divo che, invece di chiudersi dietro i no comment, raccontava i buchi neri delle dipendenze da droghe e alcool, funzionava da ricostituente, aumentava le difese immunitarie contro tristezza, banalità, omologazione.
Serviva a tutti, tranne che a se stesso: «Avevo un piccolissimo problema di droga, insomma, mica tanto piccolo, tiravo cocaina - raccontò una volta -. Ho cominciato in un periodo in cui la mia carriera andava male, pensavo, sbagliando, che la droga potesse essermi d’aiuto. D’altra parte basta andare a Hollywood e guardare il modo in cui si vive per capire come mai tanta gente cada nella stessa trappola. Sono tutti superagitati, non si fermano mai, e spesso la loro esistenza dipende dagli incassi dell’ultimo film girato. Se sono bassi, può capitare anche che nessuno ti rivolga più la parola... E la droga diventa l’unico mezzo per tenersi su».
Eppure sapere tutto non bastava, nemmeno a chi era andato all’inferno e aveva trovato la strada per tornare indietro. Le ferite restavano lì, pronte a riaprirsi, anche se c’era una moglie amatissima, una famiglia adorata, una figlia a cui mandare un tweet con gli auguri per il venticinquesimo compleanno: «Oggi hai compiuto un quarto di secolo, ma sarai sempre la mia bambina». E poi le passioni, le idee politiche di democratico convinto, l’ansia per il disastro ambientale, l’orrore delle guerre, l’ironia sull’uso e abuso di botox e bisturi, la grande amicizia con il primo Superman Christopher Reeve che, con il suo tenace attaccamento alla vita anche quando viveva solo grazie alle macchine, deve avere aiutato Williams a tenere a mente le cose importanti dell’esistenza: «Faccio l’attore nella speranza che, esplorando i comportamenti umani, sia possibile capire qualcosa di più sul perché e il come un uomo buono può trasformarsi in uno cattivo. Il mio lavoro è un po’ come una schizofrenia legalizzata, puoi abitare dentro una personalità diversa dalla tua, senza essere costretto a curarti». Recitare era una terapia, ma anche un modo per stare vicino agli altri, tutti, bambini, adulti, soldati in Afghanistan e Iraq dove tante volte era andato per tenere alto il morale delle truppe.
Non gli piacevano i Bush, né il padre né il figlio né Barbara («una specie di Lucrezia Borgia del Texas»), non gli piaceva Silvio Berlusconi («complimenti, se ne è andato, grazie a Dio» sbottò una volta a Londra, realizzando di avere davanti una giornalista italiana), trovava assurdo che Arnold Schwarzenegger fosse «il governatore tedesco di una regione fondamentalmente ispanica» e non sopportava i suoi peli, troppi: «Il mio critico peggiore è mia moglie, specialmente quando sono nudo».
Gli era piaciuto molto, invece, diventare padre, lasciare Los Angeles e andare a vivere a San Francisco, vedere La vita è bella di Roberto Benigni, interpretare il professore dell’Attimo fuggente: «In quel personaggio c’è tutto il mio spirito, mi ci riconosco nel profondo».
Parlando di Al di là dei sogni aveva detto che se avesse avuto occasione di fare un giro in Paradiso sarebbe stato contento di incontrare prima di tutto suo padre, poi «Einstein, Mozart, Beethoven, Miles Davis, Groucho Marx e anche Giovanna D’Arco, Marlene Dietrich e Marilyn Monroe, magari a pranzo con John Kennedy oppure con suo fratello Bob». L’unico conforto, adesso, è immaginarlo lì, seduto a quel tavolo, impegnato a far sbellicare tutti dalle risate, con le sue mille voci, le parodie irresistibili, il talento geniale, soprattutto la certezza di non essere mai più solo.
Fulvia Caprara, La Stampa 13/8/2014