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 2014  agosto 13 Mercoledì calendario

I PESHMERGA, L’ULTIMO BALUARDO

MAKHMUR.
La controffensiva dei curdi comincia con una maledizione. «Sono le tribù arabe che hanno tradito. Pensavamo che fossero nostri fratelli e ci hanno pugnalato alle spalle, nascondendo nei villaggi i miliziani del Califfato», sibila il generale curdo Saadi Alì Ahmed, uno degli ufficiali che hanno appena guidato i peshmerga alla riconquista di Makhmur, quaranta chilometri a sud-ovest di Erbil. Con il binocolo il generale punta all’orizzonte una macchia di verde scuro che spicca su una pianura sconfinata di erba paglierina bruciata dal sole. Dietro le nostre spalle si levano le lingue di fuoco dei pozzi petroliferi di Kurmala, uno dei tesori del Kurdistan.
«I combattenti dello Stato islamico sono ancora lì ma li spazzeremo via tutti», proclama il generale. E con un gesto nervoso alza il braccio teso nell’aria soffocante scacciando un nugolo di mosche ma forse anche la paura dell’Isil, lo Stato islamico dell’Iraq e del Levante di Abu Bakr Baghdadi.
E qui a Makhmur, ma anche a Erbil, di paura ne hanno avuta tanta. Nella notte tra mercoledì e giovedì scorso, quando si è diffusa la notiza che la città era caduta, a migliaia sono fuggiti dalla capitale del Kurdistan, svuotando gli scaffali di negozi e supermercati di tutto quanto capitava a tiro. «La mattina dopo - racconta l’autista Darah - nei bar di Erbil non si trovava più neppure una scheda telefonica».
Il generale dà la sua spiegazione: «Daesh (l’Isil nell’acronimo arabo, ndr) vince anche così: con i racconti delle gesta raccapriccianti dei jihadisti diffusi dalla gente e raccolti sul web, con l’annuncio di avanzate che devono compiersi mentre le popolazioni fuggono ancora prima che arrivino i miliziani».
Ma per la verità a Makhmur sono scappati tutti subito, soldati compresi. «Quando abbiamo visto i peshmerga abbandonare i check-point siamo fuggiti pure noi e adesso qui non ci torniamo», racconta Awal Amin, 25 anni, bazarì di tappeti che sta svuotando frettolosamente il negozio. «Questa notte a Makhmur ci sono stati altri colpi di mortaio: resteremo al sicuro a Erbil, anche se dormiamo per strada».
Makhmur è una città fantasma, come se fosse stata lambita dalla peste, dove circolano soltanto soldati e qualche abitante che torna per portare via le suppellettili abbandonate. Caricano velocemente le auto con materassi e lampadari, poi sfrecciano via senza sollevare il pedale dell’acceleratore fino all’ultimo check-point sulla strada di Erbil. «Siamo stati colti di sorpresa anche noi peshmerga - dice il generale Saadi - eravamo pochi qui a Makhmur e non potevamo sostenere lo scontro: è stata una ritirata tattica». Ma non spiega come mai una città così strategica, che apre le porte con un comodo nastro d’asfalto a Erbil, non sia stata difesa a dovere.
Peshmerga in curdo significa "colui che affronta la morte". Erano i guerriglieri che negli anni Venti del secolo scorso difesero i curdi dopo la caduta dell’Impero Ottomano mentre crollava anche la corona dei Qajari persiani, oggi è il nome delle forze armate del Kurdistan. Contro il regime di Saddam Hussein persero migliaia di uomini e l’esercito di Baghdad guidato da Ali Hassan Majid, detto Alì il Chimico, cugino di Saddam, usò le armi chimiche contro la popolazione: ad Halabja furono uccisi con i gas cinquemila curdi in pochi giorni, ma nessuno mosse un dito né ci fu una condanna dell’Onu perché allora il raìs combatteva la temuta repubblica islamica dell’Iran dell’Imam Khomeini. Come Saddam, Alì il Chimico è stato impiccato a Baghdad quattro anni fa, ma per un secolo i curdi sono stati stritolati dalla complicata geopolitica del Medio Oriente e dalle promesse mancate delle potenze occidentali.
Da queste parti c’è troppa storia per essere contenuta nei confini, reali o immaginari, di vecchi e nuovi stati in formazione, dal Kurdistan al Califfato di Baghdadi. Peshmerga sono anche i guerriglieri del Pkk di Abdullah "Apo" Ocalan, che negli ultimi trent’anni hanno combattuto contro la Turchia di Ankara.
«Anche noi del Pkk siamo venuti a batterci a fianco dei nostri fratelli iracheni e non molleremo fino a quando non avremo eliminato i jihadisti», proclama uno di loro incontrato mentre corre al fronte, oltre Makhmur. Porta una lunga treccia con i colori curdi e lo stendardo con il sole d’oro ardente a ventuno raggi, un antico simbolo religioso che nello zoroastrismo rappresenta la saggezza. E qui di saggezza ce ne vorrebbe davvero per spegnere i conflitti etnici tra curdi e arabi, quelli settari tra musulmani sciiti e sunniti e mille altri ancora, che strangolano in una morsa di vendette e stragi le minoranze come cristiani e yazidi.
Questa è anche una guerra di paradossi. Considerati terroristi, ora i guerriglieri del Pkk stanno trattando la resa con Ankara ma continuano ad attraversare indisturbati il confine turco intorno alla montagna di Qandil. Una frontiera quella turca dove sono passati anche i jihadisti che in Siria combattevano contro Assad e poi si sono arruolati nell’Isil del Califfo, che saldando la guerra irachena a quella siriana ha impresso una svolta militare nel cuore del Medio Oriente.
Come fermare il Califfato? Ancora prima di rispondere il generale Saadi Alì Ahmed alza gli occhi al cielo. «L’aviazione americana ci sta dando una mano formidabile. Siamo alleati e amici degli Stati Uniti. Ma ci servono anche armi: razzi anticarro, missili, blindati, artiglieria. I miliziani del Califfo sono ben equipaggiati, guidano gli Hammer americani, hanno razzi e mortai, un arsenale raccolto durante la fuga dell’esercito di Baghdad». E lo sottolinea con un sorriso ironico, quasi sprezzante. Per i peshmerga, se ne usciranno vivi e vincitori, questa è la grande occasione per costruire un vero esercito e forse tra poco anche uno stato. Ma da queste parti i destini dei popoli e delle nazioni sono imprevedibili e più effimeri della saggezza millenaria di Zarathustra.
Alberto Negri, Il Sole 24 Ore 13/8/2014