Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  agosto 13 Mercoledì calendario

LA CORSA ALL’EUROPA DIVENTA SELETTIVA

Dopo due anni di rally ininterrotto, partito il 26 luglio 2012 con le celebri parole di Mario Draghi («farò qualsiasi cosa per salvare l’euro»), il feeling tra gli investitori internazionali e l’Europa sembra essersi incrinato. Il rallentamento economico, la crisi in Ucraina, le tensioni geopolitiche, l’attesa dei primi rialzi dei tassi Usa e i troppi settori finanziari in odore di «bolla» stanno infatti convincendo tanti investitori a cambiare direzione. Ad essere più prudenti.
La dimostrazione è arrivata ieri, in un sondaggio condotto da Bank of America: per la prima volta dagli inizi del 2013 gli investitori che dichiarano di voler ridurre le azioni europee in portafoglio superano quelli che invece le vogliono aumentare. I "ribassisti" sono appena il 4% in più dei "rialzisti", dunque niente di drammatico. Ma solo tre mesi fa vinceva chi sovrappesava l’Europa del 28%. Il cambio di umore è dunque netto. Contemporaneamente gli investitori globali utilizzano strumenti per proteggersi dai ribassi delle Borse come non avevano mai fatto negli ultimi sei anni. E hanno aumentato la liquidità nei loro portafogli ai massimi degli ultimi 2 anni. Segno inequivocabile di maggiore prudenza. O di minore propensione per il rischio. Ma, soprattutto, segno che l’Europa (Italia in testa) torna a ballare sul filo del rasoio.
Eppure il nostro Paese negli ultimi due anni ha beneficiato di un miglioramento epocale delle condizioni di mercato. Dal 26 luglio 2012, giorno delle parole di Draghi, il rally è stato poderoso: i nostri BTp hanno ridotto i rendimenti dal 6,56% al minimo del 2,64% toccato nel luglio 2014; lo spread sui Bund è sceso da 537 punti base a 132 il 9 giugno scorso; Piazza Affari ha guadagnato oltre il 70% negli stessi due anni. Nelle ultime settimane c’è stato un rintracciamento, ma il rally complessivo resta inequivocabile: i mercati per due lunghi anni – in parte per un’opportunistica allocazione delle risorse e in parte nella speranza di una ripresa economica – hanno omaggiato l’Italia e l’Europa intera di grandi flussi favorevoli di capitali. La tanto vituperata speculazione, insomma, per due anni ci ha dato una mano. La domanda che tutti dovrebbero porsi, a questo punto, è: in questo periodo di grazia sui mercati finanziari, l’Italia cosa ha fatto per conquistarsi ulteriore stima?
Questo è il problema. Dal luglio 2012 si sono succeduti tre Governi (Monti, Letta e Renzi), sono cambiati due commissari per la spending review (senza che i veri tagli siano ancora partiti), sono state annunciate tante riforme ma poche sono state definitivamente portate a casa con tanto di decreti attuativi. Anche perché l’azione di Governo è stata interrotta tre volte. Le banche sono riuscite a prendere per il rotto della cuffia il treno dei mercati e a ricapitalizzarsi per circa 11 miliardi (grazie più che altro all’incalzare degli stress test della Bce), ma il resto del Paese ha fatto melina. La politica è rimasta molto più concentrata sul fronte fiscale, che su quello strutturale. Più sul dibattito, che sulle azioni.
Così oggi ci troviamo a dover affrontare un possibile deflusso di capitali dai nostri mercati (che ancora non c’è stato, come dimostra l’asta BoT), senza aver sfruttato in pieno i vantaggi di questi due anni di vento a favore. È vero che i titoli di Stato sono protetti dalla Bce, per cui è difficile pensare che i rendimenti possano tornare a salire sulle vette toccate due anni fa. È vero che la politica monetaria oggi è ben più accomodante di un tempo. Ma è anche vero che i mercati finanziari hanno oggi troppi eccessi, probabilmente più di quelli del 2007: questo crea una fonte potenziale di instabilità globale. Che la miccia sia la crisi in Ucraina o il rialzo dei tassi americani (previsto per il 2015), l’escalation in Iraq o lo scoppio di qualche bolla speculativa in giro per il mondo (per esempio sulle obbligazioni aziendali), poco importa. Quello che conta è altro: che l’Italia, se il vento dovesse veramente cambiare, si farebbe ancora una volta trovare impreparata. Troppo debole. Con troppi cantieri aperti. Dunque potenziale preda, ancora una volta, della speculazione.
Morya Longo, Il Sole 24 Ore 13/8/2014