varie, 13 agosto 2014
BLOB ROBIN WILLIAMS PER IL FOGLIO DEI FOGLI
Robin Williams, nato a Chicago (Illinois) il 21 luglio 1952, morto a Tiburon (California) l’11 agosto 2014. Attore. «Per anni ho pensato di suicidarmi: è stata l’unica cosa che mi ha tenuto in vita».
Si è impiccato nella camera da letto della sua casa di Tiburon, alle porte di San Francisco. È stato trovato vestito, in una posizione sospesa, con la cintura attorno al collo e l’altra estremità fissata alla porta di un armadio a muro. Aveva alcuni tagli a un polso e poco più in là c’era un coltello insanguinato. Forse ha tentato di tagliarsi le vene e poi ha optato per l’impiccagione [Lorenzo Soria, La Stampa 13/8].
«L’uomo con troppe qualità, che aveva gli occhi troppo azzurri,
il talento troppo grande. Che aveva la paura di vivere troppo profonda perché potesse sopravviverle, che aveva “il cervello di Einstein e il carattere di Paperino” come scrisse di lui il critico Roger Ebert. Ecco, è come che se nella casa di Tiburon, sobborgo stupendo a nord di San Francisco, fosse morto Paperino, quando tutti i bambini sanno che Paperino non può morire» (Vittorio Zucconi) [Vittorio Zucconi, la Repubblica 13/8].
Williams lascia la terza moglie, Susan Schneider (le altre due erano state Valerie Velardi e Marsha Garces), tre figli (Zachary, Cody e Zelda Rae), e due figliastri.
Silvia Sizio: «I due divorzi pare gli siano costati più di 30 milioni di dollari. Nonostante nel 2012 Williams valesse circa 130 milioni di dollari, sembra infatti fosse sull’orlo della bancarotta e in procinto di vendere la sua tenuta di 35 milioni di dollari e parte delle sue 50 biciclette da corsa» [Silvia Bizio, la Repubblica 13/8].
«E poi mi chiedete perché faccio dei film orrendi, per i soldi, man, per i soldi» [Vittorio Zucconi, la Repubblica 13/8].
«Ho cominciato questo lavoro appena nato, ho fatto ridere mia madre quando ho protestato perché mi spruzzava il latte dal seno direttamente negli occhi e ho detto “basta, mamma”. Ho continuato al liceo e poi al college imitando i professori. Tra gli insegnanti avevo Kissinger, non ha gradito quando gli ho parlato con la sua voce» [Maria Pia Fusco, la Repubblica 22/7/2002].
«Sono stato un ragazzo solitario. Da Chicago a Detroit a San Francisco, cambiai sette scuole: ero figlio unico, mio padre aveva cinquant’anni quando nacqui, figlio di due divorziati sempre pronti a trasferirsi. I ragazzi dei loro due precedenti matrimoni vivevano lontani, la mia immaginazione era la sola amica» [Giovanna Grassi, Cds 22/4/2004].
Bis-bis-bisnipote del senatore e governatore del Mississippi Ansel J. McLaurin — il suo nome intero è infatti Robin McLaurin Williams — abbandona gli studi di scienze politiche per iscriversi alla Juilliard School di New York (quella di Saranno famosi). Mimo, stand-up comic nei cabaret di Manhattan, interpreta l’alieno Mork in un episodio di Happy Days e da lì diventa l’applaudito protagonista dello spin-off Mork & Mindy, che gli fa vincere il primo dei suoi sei Golden Globe (oltre ad altrettante nomination) [Paolo Mereghetti, Corriere della Sera 13/8].
Premio Oscar come miglior attore non protagonista per Will Hunting – Genio Ribelle (di Gus Van Sant, 1997). È stato tra l’altro il dj Adrian Cronauer di Good Morning, Vietnam (Barry Levinson, 1987), il professor John Keating dell’Attimo fuggente (Peter Weir, 1989); un padre/tata in Mrs Doubtfire (Chris Columbus, 1993), un dottore in Risvegli (Penny Marshall, 1990) e in Patch Adams (Tom Shadyac, 1998), un robot nell’Uomo bicentenario (Chris Columbus, 1999), il presidente Theodore Roosevelt in Una notte al museo (Shawn Levy, 2007) e Dwight Eisenhower in The Butler (Lee Daniels, 2013). Da ultimo ha girato The Angriest Man in Brooklyn (Phil Alden Robinson, 2014), Boulevard (Dito Montiel, 2014) e Una notte al museo 3 - Il segreto del faraone (Shawn Levy, 2014).
«Due pieghe profonde sopra le labbra che neanche gli abilissimi truccatori di Hollywood sono mai riusciti a cancellare. Coperte dal cerone di Mrs Doubtfire erano anche più visibili» (Giuseppe Videtti) [Giuseppe Videtti, la Repubblica 6/11/2005].
Amico di John Belushi, era con lui quando l’attore e cantante morì per overdose. Francesco Borgonovo: «“Hey, John, se dovessi mai rialzarti dal letto, fammi uno squillo”. È la notte del 4 marzo 1982, e Williams sta salutando il suo amico Belushi prima di uscire dalla sua stanza all’hotel Chateau Marmont di Hollywood. Sono entrambi giovani (Williams è del ’51, Belushi del ’49) e famosi. Il problema è che John non si rialzerà più, lo troverà il suo personal trainer la mattina dopo, con il cuore spappolato da un’iniezione di speedball, una colazione dei campioni a base di varie sostanze tra cui eroina e cocaina (…) In quella notte del 1982, dentro Robin Williams qualcosa si muove. Forse si spaventa. Forse prova una stretta al cuore che tempo dopo gli farà partorire una celebre battuta: “La cocaina è il modo che ha Dio per farti capire che stai facendo troppi soldi”» [Francesco Borgonovo, Libero 13/8].
«Quella notte tragica ha cambiato per sempre anche il destino di Robin Williams. Probabilmente perché, in fondo, conosceva quel sentimento che poi avrebbero chiamato depressione, che aveva spinto l’amico verso zone sempre più nere, verso un’inesorabile autodistruzione. Williams come Belushi sapeva cosa significasse essere adorato dal pubblico per i sorrisi regalati. E forse già allora sapeva cosa significava ritrovarsi in privato senza riuscire a trovare il motivo per farne uno» (Chiara Maffioletti) [Chiara Maffioletti, Corriere della Sera 13/8].
Ha poi raccontato: «Avevo un piccolissimo problema di droga, insomma, mica tanto piccolo, tiravo cocaina. Ho cominciato in un periodo in cui la mia carriera andava male, pensavo, sbagliando, che la droga potesse essermi d’aiuto. D’altra parte basta andare a Hollywood e guardare il modo in cui si vive per capire come mai tanta gente cada nella stessa trappola. Sono tutti superagitati, non si fermano mai, e spesso la loro esistenza dipende dagli incassi dell’ultimo film girato. Se sono bassi, può capitare anche che nessuno ti rivolga più la parola...» [Fulvia Caprara, La Stampa 13/8].
«Ho lasciato Los Angeles perché non riuscivo a stare in una città dove i parcheggiatori si dispiacciono per te per il box office del week-end e dove i poliziotti che ti danno la multa ti passano la loro ultima sceneggiatura» [La Stampa 14/3/2005].
A segnarlo sarà poi il’incidente di Christopher Reeve, l’attore di Superman, altro grande amico di anni sgangherati. La persona che gli resterà a fianco, umanamente e a suon di milioni di dollari per l’assistenza medica, è ancora Williams [Emiliano Liuzzi, il Fatto Quotidiano 13/8].
Dopo gli abusi degli Anni Ottanta era riuscito a venirne fuori, riconquistando la sobrietà. «È durata vent’anni. Poi nel 2004 ha ricominciato a bere, complice la solitudine di un viaggio in Alaska, dove era per un film. “Un goccio, soltanto un goccio per scaldarmi” si disse. “Dal freddo?”, gli chiese l’intervistatrice del “Guardian”, “Dalla solitudine”, rispose lui» (Vittorio Zucconi) [Vittorio Zucconi, la Repubblica 13/8].
Paolo Mereghetti: «Difficile trovare una sintesi tra i mille volti (e le mille voci) cui aveva dato vita in quarant’anni di carriera. Ma difficile anche far coincidere quell’immagine survoltata e irrefrenabile con la dichiarazione del suo press agent, che di fronte al corpo senza vita trovato lunedì dalla polizia di Marin County si è affrettato a dichiarare che l’attore soffriva di “depressione”. Come se bastasse quella parolina a spiegare tutto» [Paolo Mereghetti, Corriere della Sera 13/8].
Di film in film il suo sguardo si è venato sempre più di malinconia, sempre più si è fatto sperduto e assente. Alessandra Levantesi Kezich: «Il 2002 è un anno fatidico con due pellicole, Insonnia di Christopher Nolan e One Hour Photo di Romaneck, dove interpreta due figure consimili di omicidi psicopatici cui evidentemente conferisce un suo segreto stato di infelicità e solitudine. E poco importa che poi arriveranno altre commedie, altri ruoli brillanti, altre favole: l’immagine fermata in quei film è quella che ci è venuta subito alla mente alla dolorosa notizia della sua scomparsa. [Alessandra Levantesi Kezich, La Stampa 13/8].
«Erano anni che non era più credibile al cinema, come fosse l’ombra del grande attore e del grande commediante che era stato, una specie di presenza imbarazzante perché ormai troppo consumato, distrutto inoltre, assieme alle cause maggiori di coca e alcool, anche dalla massa di film inutili che aveva girato dove era obbligato a quella eterna faccetta allegra e sorridente, penso solo ai terribili L’uomo bicentenario o Patch Adams o Al di là dei sogni, tutti film che, misteriosamente aveva a che fare con la morte e a come superarla» (Marco Giusti) [Marco Giusti, Dagospia 12/8].
Si definiva «cattolico light: stessi rituali, ma la metà del senso di colpa». [Federico Cella, Cds 24/11/2011]
«Ti ricordi quella volta che, durante l’intervista, l’interprete rideva talmente tanto da non riuscire a tradurre la risposta?... E ti ricordi quando fece l’imitazione di Ratzinger e poi improvvisò il rap sul «Papapanzer»? E quella mattina in cui, a Cannes per il lancio di What dreams may come, fece il giro della sala dopo essersi caricato in spalla l’enorme cartellone pubblicitario del film? Ogni incontro con Robin Williams era una festa, uno show che travolgeva la liturgia noiosa delle conferenze stampa, una scoperta umana, un’esperienza di vita più che di lavoro» [Fulvia Caprara, La Stampa 13/8].
In un’intervista a Giovanna Grassi nel 2006 disse: «Capita nella vita, e a me accade più spesso sullo schermo, di essere bravi insegnanti, ma di non saper scegliere per se stessi la strada giusta (…) Le debolezze personali trovano anche fertili radici nell’insoddisfazione serpeggiante nel mio Paese. Per un comico, poi, quando ridere non ha più un effetto catartico, specie nel mondo di oggi, tutto diventa difficile. Avevo acquistato un ranch e iniziato pochi anni fa a produrre vino. Credevo di dominare la situazione e speravo che anche questa attività mi avrebbe aiutato a sconfiggere ogni demone, ma non è stato così» [Giovanna Grassi, Corriere della Sera 28/10/2006].
Nel settembre scorso, era tornato al David Letterman Show. Scanzi: «Sembrava allegro: sembrava, appunto. Sin troppo su di giri. Pareva un uomo che si imponeva di ridere, per reiterare l’illusione. Stimolato da Letterman, ammise: “I monologhi comici? È meno costoso che andare in analisi. Per me era un modo di raccontare la mia vita. Evito di parlare troppo della mia vita personale, ma durante quegli spettacoli ho toccato temi interessanti: mi riferisco alle ricadute con l’alcol e al fatto che ho scelto una clinica per alcolisti nella regione dei vini. Nel caso avessi cambiato idea”» [Andrea Scanzi, il Fatto Quotidiano 13/8].