Irene Soave, Vanity Fair 13/8/2014, 13 agosto 2014
CENT’ANNI TRA DUE OCEANI
Sai già che se hai mangiato una banana prima di partire, è passata di qui, da una delle 144 rotte commerciali tra l’oceano Pacifico e l’Atlantico. Che una nave – ne transitano 14 mila l’anno – impiega tra 8 e 10 ore per navigare i suoi 78 chilometri, divisi da tre chiuse, chiamate Miraflores, Pedro Miguel e Gatún, spazio di manovra strettissimo. E che per costruirlo ci sono voluti 33 anni e 50 mila operai, di cui 20 mila morti di febbre gialla, e ora altri 7.300 lavorano al suo ampliamento: guidato anche dall’italiana Impregilo, si sarebbe dovuto concludere ora, ma arranca. Quando arrivi sul Canale di Panama hai studiato: eppure, ride Guimara Rivas, la guida che accompagna i viaggiatori italiani (noi siamo partiti con il tour operator Kel 12, specializzato in tour culturali) alla chiusa di Miraflores, «tutti restano un po’ delusi scoprendo che non c’è un punto dove i due oceani si toccano».
Ma tutto a Panama, che il 15 agosto celebra 100 anni da quando la prima nave solcò il Canale (con la Noche de Gala Centenario, 150 artisti, più eventi e aperture speciali del Canale; il programma è su micanaldepanama.com), è così. Non c’è una separazione netta, per esempio, tra i grattacieli del quartiere finanziario della capitale, spuntati negli ultimi vent’anni e abitati solo da stranieri, e le basse case coperte di murales col volto di San Giuda Taddeo, patrono delle cause impossibili. Né tra il sogno del boom – un Pil al +50% dal 2008 – e il realismo magico inventato nella vicina Colombia: la catena di supermercati 99, il cui fondatore Ricardo Martinelli è stato fino a luglio presidente della Repubblica, ha corsie intere di sahumerios, polveri magiche (chissà) da bruciare per trovare l’amore o vincere al lotto.
E sul trenino della Panama Canal Railway Company, che collega la capitale e Colón, sull’Atlantico, capiamo che gli chef hipster di Casco Viejo non sono gli unici venuti per fare soldi. Un gruppo di veneti fuma sigari e canta «osteria numero mille».
«Siamo qui per investire», taglia corto uno di loro in polo col colletto alzato. In rete sono molti i tour operator più o meno seri che offrono pacchetti per la «Dubai del Centroamerica, lontana dalla dittatura dell’euro», comprensivi di aiuto per prendere la residenza e fare (vaghi) «investimenti immobiliari». A Colón, però, Panama smette di sembrare Dubai. La città è una baraccopoli; il porto è la seconda zona duty-free al mondo dopo Hong Kong, ma l’altro record è il carcere, il più affollato del Paese. Rientriamo fermandoci a Portobelo, villaggio di pescatori e hippy espatriati. Le sue attrazioni sono la danza congo degli schiavi neri, i relitti dei pirati sott’acqua, il mare pulitissimo.
Perché se il canale ha creato ricchezza combattendo la natura, il resto del Paese trova la sua bellezza nel preservarla. In un’ora di volo atterriamo al microaeroporto di Porvenir (dove check-in e bagagli sono gestiti da due anziane in ciabatte, altro che antiterrorismo), la porta per l’arcipelago di San Blas: 400 isole, alcune grandi come un bilocale, acque turchesi. Quasi tutte abitate solo da palme e pesciolini: la comunità indigena che le amministra, i Kuna, si ribellò nel 1925 per l’indipendenza da Panama, ed è ben decisa a resistere anche ai turisti, riservando loro poche spartane strutture. «Vivremmo meglio coi vostri soldi di sicuro», spiega Gali Robinson, che a 38 anni ne dimostra 50 e porta tre volte al giorno, a braccia, cisterne d’acqua dalla terraferma all’isola di Kuanidup, dove affitta ai viaggiatori sei capanne di banano. «Ma i nostri avi hanno lottato per non vivere da panameños, e anche da morti dobbiamo ascoltarli». Le loro anime, per i Kuna, si manifestano ai vivi «trasportate nella notte sul dorso degli squali: per questo è meglio che muoia un uomo che uno squalo», spiega Gali. E tra le isole in cui ci guida – la più bella è l’Isola delle Stelle, lunga cento passi e larga cinquanta, i fondali ricoperti di stelle marine – gli squali ci sono, anche se al largo. Navigando verso est si arriva al Darién, una terra di nessuno dove si interrompe anche la Panamericana. Battutissima dai gruppi armati colombiani, e perciò invisitabile, è anche la zona con il più alto tasso al mondo di biodiversità. Nella nuova Panama, libera da soli 25 anni dal dittatore Manuel Noriega e dal 2000 padrona dell’amministrazione del Canale (prima gestito dagli Stati Uniti), la biodiversità è un monumento di identità nazionale: lo dimostra lo sfavillante Biomuseo de Panamá, firmato da Frank Gehry. Il suo motto: «Da 3 milioni di anni, cambiamo la vita del mondo», perché migliaia di specie animali e vegetali si sono mescolate grazie all’istmo che unisce le due Americhe. Tre milioni di anni: il Canale, che le divide, ne ha appena cento.