Francesco Borgonovo, Libero 13/8/2014, 13 agosto 2014
L’ATTIMO DI ROBIN WILLIAMS FUGGITO TRA ALCOL E DROGA
«Hey, John, se dovessi mai rialzarti dal letto, fammi uno squillo». È la notte del 4 marzo 1982, e Robin Williams sta salutando il suo amico John Belushi prima di uscire dalla sua stanza all’hotel Chateau Marmont di Hollywood. Sono entrambi giovani (Williams è del ‘51, Belushi del ‘49) e famosi. Robin è esploso con il ruolo dell’alieno Mork, capace di far tremare le ginocchia a Fonzie in una celebre puntata di Happy Days, prima di diventare protagonista della serie Mork e Mindy. John ha girato film di culto ed è la star indiscussa del Saturday Night Live, dove più volte si è esibito e si esibirà ancora in futuro anche Williams.
Il problema è che John non si rialzerà più, lo troverà il suo personal trainer la mattina dopo, con il cuore spappolato da un’iniezione di speedball, una colazione dei campioni a base di varie sostanze tra cui eroina e cocaina. Il corpo riverso sul letto, freddo. Gelido come quello del 63enne Robin Williams alle 12.02 pomeridiane di lunedì, quando è stato dichiarato il decesso nella sua villa di Tiburon, California. Causa della morte: suicidio per asfissia. La sua assistente l’ha trovato con la pelle dura della cintura a stritolargli il collo e dei tagli sui polsi procurati con un coltello (lasciato nella stanza), i graffi di una tigre che cercava di uscirgli da dentro.
Per un attimo è ancora il 4 marzo del 1982, il primo giorno ricordato dalle cronache in cui Mr. Williams ha avuto un rendez-vous con la Mietitrice. Quella notte, ha raccontato il giornalista Bob Woodward, Robin non si sente molto in forma. Si è esibito (gratis e in tarda serata) al Comedy Store, praticamente casa sua. Ci va ogni volta che le cose gli girano male e sente il bisogno di ritrovare il contatto col pubblico. Sceso dal palco, ha saputo che Belushi è in albergo a fare festa e in una stanza vicina c’è pure Robert De Niro, in compagnia di due fanciulle generose. Williams li raggiunge e si fa un paio di piste nella camera di John, dove staziona da qualche ora Cathy Smith, corista e groupie con una passione per le droghe di tutti i generi. A Robin quella donna non piace. Gli fa paura. Strafatta. Fuori controllo. E dire che il nostro non è esattamente un’orsolina. Su per il naso gli finisce e spesso ben più del Vicks Vaporub. A suo modo, Robin è un reuccio della cocaina, ma nel giro del Saturday Night Live è una cosa normale. La prendono tutti, anche Dan Aykroyd, a dispetto della faccia da bamboccione. Però, in quella notte del 1982, dentro Robin Williams qualcosa si muove. Forse si spaventa. Forse prova una stretta al cuore che tempo dopo gli farà partorire una celebre battuta: «La cocaina è il modo che ha Dio per farti capire che stai facendo troppi soldi».
Eppure lui i soldi continuerà a farli, tanti. Il suo momento di gloria deve ancora arrivare: saranno gli anni Novanta di celluloide da Risvegli a Genio ribelle passando per Mrs Doubtfire a trasformarlo in un’icona (e in un miliardario). Eppure non smetterà di imbottirsi di sostanze. Ufficialmente, la sua liaison con la bamba finisce nel 1983, con la nascita del primo figlio. Una bella storia per famiglie, come no. Le stesse famiglie che affollano le sale per vederlo in Patch Adams o Jumanji, o per sentirlo dar voce al Genio di Aladdin. Ma ci crediamo davvero? La polvere non è un’amante che si molla facilmente, piuttosto è una moglie in un mondo in cui il divorzio è fuorilegge. Per un po’ la dimentichi, ma alla fine ti presenta il conto del mobilio e degli alimenti (tra cui l’operazione all’aorta a cui Williams si è sottoposto pochi anni fa). Così l’alcol, l’amico che se ne va per ultimo nelle serate di festa e per primo ti molla la mattina dopo.
Ufficialmente, Robin rimane pulito per una ventina d’anni. Fino al 2003. Si trova in Alaska, dove va a ubriacarsi anche il sole, e al suo tavolo si accomoda John Barleycorn, lo Spirito alcolico che perseguitava Jack London. «Ero in una cittadina. Non ero al limitare del mondo, ma da lì potevo vederlo», ha raccontato nel 2010. «Allora ho semplicemente pensato, ehi, forse bere aiuterà. Perché mi sentivo solo e terrorizzato. Era quella cosa di lavorare così tanto, e fottersi, magari avrebbe aiutato. Ed è stata la cosa peggiore del mondo».
Qualcuno dice che Robin sia caduto di nuovo nella dipendenza dopo la perdita, nel 2004, dell’amico Christopher Reeve (ancora un amico, ancora una morte). Ma lui è stato chiaro: «È una cosa molto più egoistica». È quando sei solo, e hai paura. E ad aiutarti c’è il solito amico stronzo ad alta gradazione. Williams ci ha provato, a esorcizzarlo. Ha portato in giro uno stand-up esilarante chiamato Armi di autodistruzione, in cui metteva in piazza, ridendone, le sue fragilità.
Aveva, sul set, gli stessi occhi acquosi di Philip Seymour Hoffman anche lui morto da poco in una solitudine oppiacea ma non il suo corpo gonfio. Philip sembrava caricare il tormento su di sé, vi rovistava prima di immolarsi al pubblico e tornare a casa con una voragine da riempire, barricato in un appartamento, nella sua personale e nera Alaska.
Robin esternava, ma le risate non potevano staccargli il male di dosso. È la strana democrazia della dipendenza, in cui la star vale quanto un miserabile di periferia, e nessuno dei due ha diritto di voto. «Depressione», hanno detto ieri dallo staff di Williams. Poi hanno parlato di un programma di recupero che l’attore stava affrontando. Sono usciti i casini economici per l’ultimo di-
vorzio, i flop, le solite storie. Poi ecco le 12.02 di lunedì, la cintura che tira sul gozzo, l’asfissia e il freddo. E c’era John Belushi, in un angolo, che sorrideva: «Ehi, Robin, se mai ti dovessi rialzare, fammi uno squillo».