Cristiano Tinazzi, Il Messaggero 13/8/2014, 13 agosto 2014
TRUCCO E KALASHNIKOV, LE DONNE CURDE AL FRONTE
LA STORIA
In questa guerra contro lo Stato Islamico che si sta consumando tra Iraq e Siria, spuntano anche le donne. Non solo madri, mogli devote che aspettano a casa figli e mariti mandati al fronte ma anche loro, Kalashnikov in mano e tuta mimetica, in prima linea a combattere. Sono le curde quelle che più di tutti, che sia per tradizione o per ideologia politica, hanno imbracciato le armi per dare sostegno e supporto ai loro commilitoni. Vengono dalla Turchia, come le donne del Pkk, che fin dagli anni ’90 hanno combattuto fianco a fianco con gli uomini per il loro sogno di autonomia. Sono le madri di Kobani del Popular Protection Units (Ypg), nel nord della Siria, guidate da Yekitiya Star, che stanno difendendo con le unghie e con i denti la loro terra, circondate da migliaia di miliziani jihadisti. Sono le peshmerga del colonnello Nahida Ahmed Rashid, una veterana che ha sempre combattuto per la causa separatista curda, la donna con il più alto grado militare nei peshmerga. La sua unità, tutta al femminile, è stata formata nel 1996 a Suleymaniyya per combattere i lealisti di Saddam e, oggi, è in prima linea a combattere i miliziani sunniti dell’Isis.
IN PRIMA LINEA
Donne ai checkpoint, sui mezzi militari, negli uffici. Migliaia di soldatesse che si differenziano dai loro compagni di camerata solo per aver qualche traccia di make-up e i lunghi capelli raccolti sulla nuca. Centinaia, migliaia di combattenti pronte a tutto: «Non lasceremo la nostra terra, non ce ne andremo e non permetteremo a nessuno di occuparla», dice Bese, madre di cinque figli. Le soldatesse del colonnello Rashid sono una forza di élite addestrata dagli Swat e dalle forze speciali per essere impiegate sul campo. Soprattutto a Kirkuk e nei complessi petroliferi. Donne e politica, nel variegato mondo curdo, sono una costante. Musulmane devote e non osservanti, nazionaliste, conservatrici, marxiste o socialdemocratiche, poco importa. Quello che sta succedendo oggi è che vengono superate le divisioni politiche di gruppi e partiti per fronteggiare un nemico comune. Anche Miss Kurdistan, al secolo Fenk Mohammed, 25 anni e un sorriso che stenderebbe qualsiasi nemico, ha indossato mimetica e occhiali a specchio e si è recata in visita ai peshmerga portando loro cibo e doni. «È quello che tutti noi dovremmo fare come cicurdi», dice Fenk. Un dovere. La sua famiglia ha avuto molti lutti a causa della guerra ma ancora oggi sono tutti impegnati a dare un contributo fattivo alla nazione.
LA FATWA
Ma non ci sono solo le donne curde. Anche le sciite si sono mobilitate. Tre giorni dopo la caduta di Mosul, avvenuta il 10 giugno scorso, il Grande Ayatollah Ali al-Sistani, la più importante autorità sciita di tutto il Medio Oriente, nonché guida spirituale e politica dell’Iraq, aveva emesso una fatwa in cui invitava gli iracheni ad arruolarsi come volontari nelle milizie lealiste. L’occasione è stata presa al balzo da oltre cinquemila donne, descritte come resistenti e madri di famiglia che imbracciano il Kalashnikov per proteggere i luoghi santi sciiti del loro Paese. Copia del Corano ben stretta al petto e un fucile automatico alzato per aria, pronte a morire per difendere le proprie case. E poi ci sono le simpatizzanti dell’Isis, che non fanno la guerra, cosa riservata solo agli uomini, ma si occupano di problemi riguardanti la moralità femminile: come le miliziane della brigata al-Khansaa di Raqqa, in Siria (ma adesso diffuse anche in altre città conquistate in Iraq) che si occupa di far rispettare la Sharia.