Chiara Maffioletti, Corriere della Sera 13/8/2014, 13 agosto 2014
TALENTO E DISPERAZIONE, QUANTE VITTIME A HOLLYWOOD
Erano amici John Belushi e Robin Williams, lo erano molto. Le loro vite, per certi versi diversissime, hanno avuto dei punti di connessione più profondi di quanto si sarebbe portati a pensare. E ora, nel momento della morte, violenta e inattesa, di uno dei talenti comici più grandi di quest’epoca, sembra inevitabile tornare a quella notte del 1982 in cui il corpo di Belushi è stato trovato senza vita nella stanza di un hotel. Era lo Chateau Marmont, elegante ritrovo ancora oggi amatissimo dalle stelle hollywoodiane. Belushi aveva alle spalle una settimana di eccessi (droga e alcol), che confermavano il tormento di cui era fatta la vita dell’attore, in cui le risate erano solo quelle che regalava al pubblico.
Aveva però degli amici e uno di questi era Robin Williams. Con De Niro è stato tra le ultime persone a parlargli, a vederlo vivo. Assieme a Cathy Evelyn Smith, la cantante uscita dalla sua stanza portando con sé la siringa con cui si pensa gli abbia somministrato una dose di droga, forse letale. Ma quella notte tragica ha cambiato per sempre anche il destino di Robin Williams. Probabilmente perché, in fondo, conosceva quel sentimento che poi avrebbero chiamato depressione, che aveva spinto l’amico verso zone sempre più nere, verso un’inesorabile autodistruzione. Williams come Belushi sapeva cosa significasse essere adorato dal pubblico per i sorrisi regalati. E forse già allora sapeva cosa significava ritrovarsi in privato senza riuscire a trovare il motivo per farne uno.
Ma quella notte del 1982 ha segnato comunque la sua vita, perché allora Williams ha deciso che non avrebbe più fatto uso di droga, di cocaina. Ce l’ha fatta, ma non ha avuto la stessa grazia con l’alcol. Si dice, non si sa se per trovare una consolazione, che il talento sia spesso accompagnato da una dose di sensibilità fuori dalla norma. Una sensibilità che ti porta a sentire i sentimenti in un modo diverso, più profondo. E se stai male, stai davvero male. Sarebbe questo il peso, sostengono, che portano i grandi. E sarebbe questo che il più delle volte li condanna a esistenze inquiete, inevitabile rovescio di capacità così eccezionali da renderli dei fuoriclasse. Lo era considerato anche Heath Ledger, nonostante avesse solo 28 anni quando è stato trovato morto, anche lui solo, nel suo appartamento di New York. Era il 2008. Si parlò di suicidio, in realtà gli è stato letale un complicato miscuglio di farmaci. Sonniferi, ansiolitici e analgesici presi assieme che confermerebbero la tesi della depressione: ancora una volta aveva trovato un talentuoso bersaglio.
Soffriva, si dice, per la fine della storia con Michelle Williams, conosciuta sul set di Brokeback Mountain, con cui aveva avuto una bimba bella e bionda come lui. Poco dopo Ledger ha vinto l’Oscar per Il cavaliere Oscuro , anche se non l’ha mai potuto tenere tra le mani come invece hanno fatto Williams e un altro grandissimo morto solo pochi mesi fa, Philip Seymour Hoffman. Un’altra fine inattesa, un’altra vita tormentata dalla droga con cui l’attore ha combattuto fino all’ultimo, perdendo: è stato trovato con una siringa nel braccio. Nel 1998 lui e Williams recitavano insieme in Patch Adams . Interpretavano due dottori dal temperamento opposto. Eppure qualcosa in comune forse l’avevano. Quello che Garry Marshall — il produttore che scritturò Williams, giovane comico sconosciuto, per «Mork & Mindy» — ha racchiuso in poche parole: «Poteva rendere felice chiunque, tranne sé stesso».