Viviana Mazza, Io Donna 9/8/2014, 9 agosto 2014
LA RIVOLUZIONE DEL ROSSETTO
Solo gli occhi truccatissimi e le mani pallide e curate emergono dall’abaya. Come fantasmi neri, le commesse saudite sistemano i reggiseni di pizzo sugli appendiabiti, applicano alle labbra delle clienti tinte accese di rossetto, le accompagnano nei camerini trascinando abiti da sera.
Scene di una rivoluzione in corso in Arabia Saudita. Assai meno discussa della lotta decennale (finora sconfitta) per il diritto a guidare l’auto, la campagna cosiddetta di “femminizzazione” (in arabo taaneeth) dei posti di lavoro è una conquista recente delle donne del Regno, una conquista che - in modo graduale ma profondo - sta portando a una maggiore emancipazione. Mentre le saudite lavorano da tempo negli ospedali e nelle scuole, anche per assicurare la segregazione sessuale tra pazienti e tra studenti, l’Arabia ha uno dei tassi di occupazione femminile più modesti del mondo, al 12%, secondo dati del 2011 della Banca Mondiale. Bassissimo anche in confronto ai vicini del Golfo: più del 35% in Qatar, quasi il 50% negli Emirati.
Finalmente però, nel 2011, un decreto del novantenne e malato re Abdullah ha consentito alle saudite di lavorare nei negozi, e il ministero del Lavoro ha ordinato a quelli specializzati in biancheria intima, cosmetici, abaya e vestiti da sposa di assumere soltanto donne. In un Paese conservatore come questo, è una rivoluzione. L’impiego femminile nel settore privato è passato da 48 mila lavoratrici nel 2009 a circa 400 mila nel 2013, secondo la tv Al Arabiya.
Per molte saudite, abituate a passare le giornate davanti alla tv, diventare commesse e cassiere ha significato trovarsi per la prima volta a interagire quotidianamente anche con uomini estranei. Lavorano per ragioni diverse: «Alcune sono cresciute in famiglie relativamente liberali, altre sono conservatrici, ma hanno bisogno di soldi» racconta la fotografa Kate Brooks, autrice delle immagini pubblicate in queste pagine. È una rivoluzione ma non ha cancellato la dipendenza delle donne dai “tutori”. Il potere di decidere se una può lavorare o meno - e studiare, viaggiare, ricevere cure in ospedale - resta in mano al “guardiano” maschio, che per quelle nubili è il padre o un fratello, per quelle sposate il marito e per le vedove può essere un figlio dodicenne.
Né è con lo “slogan” dei “diritti femminili” che le donne hanno conquistato il posto di lavoro. Si sono appoggiate a un altro principio: quello della vergogna. Quando i conservatori e la polizia religiosa si sono opposti all’impiego femminile, sostenendo che incoraggia l’ikhtilat (i contatti tra uomini e donne in pubblico), una docente universitaria di Finanza di nome Reem Asaad ha invitato al boicottaggio dei negozi di lingerie argomentando che ciò che è indecente e vergognoso è che le clienti rivelino ai commessi maschi le misure del seno. È anche grazie alla sua campagna che le donne hanno ottenuto di poter lavorare.
Tre anni dopo che cosa è cambiato? Le critiche dei conservatori continuano, anche via YouTube e Twitter. Ma non sono l’unico problema. Centinaia di negozi di lingerie e di cosmetici hanno chiuso i battenti: lo scorso dicembre i proprietari hanno chiesto al ministero del Lavoro di permettere loro di assumere donne straniere, perché non ci sono abbastanza saudite disponibili a lavorare.
Secondo lo scrittore Rashed Al Fawzan, il problema è «la mentalità retrograda dell’uomo saudita, contrario alla partecipazione della donna al lavoro: per questo abbiamo due milioni di disoccupate». In realtà, secondo il ministero del Lavoro sono molte di più: solo 709 mila dei 5,9 milioni di donne in età lavorativa ha un impiego. E l’opposizione non è solo maschile: un sondaggio del 2006 rivela che l’86% delle donne è contrario agli ambienti misti di lavoro. Mentre in città più aperte come Gedda il cambiamento è più facile, è assai più osteggiato a Riad dove le prime cassiere assunte in un supermercato furono licenziate dopo una settimana perché la gente era scandalizzata.
Ma anche nella capitale ci sono realtà di segno opposto, come Harvey Nichols, un centro commerciale di lusso che conta una quarantina di commesse, diretto dalla principessa Reema bint Bandar Al Saud, una nipote del re educata in America. La “femminizzazione” ha comportato nuovi costi per i negozianti, che hanno dovuto erigere barriere alte un metro e mezzo per evitare i contatti tra colleghi e colleghe: eppure in un dibattito recente sul portale Al-Haqiqa News questo ha portato a criticare non l’impiego femminile, ma piuttosto la separazione totale tra uomini e donne.
Per le donne la rivoluzione in atto non è solo economica ma anche sociale, secondo Katherine Zoepf, ricercatrice della New America Foundation che ne ha scritto sul New Yorker. «I contatti al di fuori della famiglia diventano un modo per condividere le idee. Le donne divorziate incontrano altre donne divorziate e scoprono di avere il diritto di vedere i propri figli anche quando sono affidati al padre».
Col tempo, argomenta la fotografa Kate Brooks, i mariti si stancheranno di accompagnare le mogli al lavoro e si arriverà al diritto di guidare. Haifaa al-Mansour, prima regista donna saudita, acclamata per il film La bicicletta verde, spiega che quelli che all’esterno sembrano passi impercettibili, all’interno del Paese vengono sentiti come grandi balzi in avanti. Molti anziani e persone di mezza età si oppongono al cambiamento, ma l’Arabia è anche un Paese dove il 51% della popolazione ha meno di 25 anni. I giovani crescono in una società tribale e collettivista, imparando valori come il rispetto per gli anziani, allo stesso tempo desiderando di essere moderni, di costruirsi la propria vita. È questo il motore della rivoluzione che verrà.