Oscar Giannino, Il Messaggero 12/8/2014, 12 agosto 2014
L’ANTISTORICA BATTAGLIA PER DIFENDERE L’ARTICOLO 18
Si torna allo scontro sull’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, quello che disciplina le norme per i licenziamenti e i reintegri nelle aziende sopra i 15 dipendenti. Nei decenni, la norma è diventata una lizza obbligata per tornei a partiti contrapposti. Cerchiamo di capire che cosa è davvero in gioco, e che cosa sia meglio sperare. Premessa obbligata: il rinvio non aiuta. La legge delega di riforma del lavoro – impropriamente detta Jobs Act – in Senato è stata rinviata a settembre, sotto il peso delle migliaia di emendamenti che impegnavano l’aula sulla riforma della Costituzione.
L’ingorgo delle misure – c’erano anche 4 decreti legge pendenti in parlamento – e la ristrettezza dei tempi ha avuto un impatto negativo. La riforma del mercato del lavoro, dalle parole di Draghi alle analisi della grande stampa estera dopo la conferma della recessione italiana nel secondo trimestre, è in testa alla lista delle misure per le quali si rimprovera al governo un ritardo sulle riforme di maggior impatto economico.
Di conseguenza, a settembre governo e maggioranza devono cercare di arrivare al varo del provvedimento con idee chiare e soluzioni efficaci. Se si reimpantanano in contese ideologiche, sarà un’altra ragione per diffidare dell’Italia. Non è proprio il momento. Poiché la politica procede per semplificazioni comunicative, in questi giorni sembra essersi riaperto il classico scontro già visto tante volte.
Alfano punterebbe all’abrogazione, Brunetta e Forza Italia si sono aggiunti, mentre buona parte del Pd e naturalmente Cgil e sindacato sono contrari. Messa così, il governo si farà male, non potendo certo ammettere che su una simile misura “sociale” mezzo Pd sia pareggiato dal voto compatto di Forza Italia. Ed è alto il rischio che non ne esca niente di buono. La soluzione deve invece venire da un ragionamento il più possibile oggettivo, basato su dati di fatto cioè numeri, e incardinato su ciò che davvero è nelle norme proposte: nessuna delle quali – sorpresa! - attualmente in Senato propone il superamento dell’articolo 18 per tutti i dipendenti e per sempre.
I numeri. Nei nuovi rapporti di lavoro attivati dal 2011 al 2013, sono diminuiti i contratti a tempo indeterminato (-14,2%), è sceso l’apprendistato (-18,4%), i contratti di collaborazione per lo più a progetto (-24,3%) e il lavoro a chiamata (-31,6%). Di qui l’intervento fatto dal governo col decreto Poletti, per semplificare l’uso dei contratti a termine e l’apprendistato, riducendo gli spazi per altre formule contrattuali, ritenute più a rischio di abusi, come le collaborazioni a progetto, l’uso di partite Iva, il lavoro a chiamata. Una cosa è sicura, da questi dati: l’intento della riforma Fornero sul lavoro, cioè scoraggiare il ricorso alle collaborazioni a tempo più “sospette”, non ha avuto affatto l’effetto di rafforzare il lavoro a tempo indeterminato, che è l’idea molto “novecentesca” che sindacati e sinistra hanno del lavoro. Siamo riusciti a scoraggiare anche i contratti di lavoro a chiamata (o di lavoro intermittente), molto usati negli alberghi e nella ristorazione, scesi dal 10% al 5% sul totale degli avviamenti al lavoro, e poi diciamo di voler rilanciare turismo e cultura…
Nella crisi italiana, dal 2010 a oggi, nessun intervento politico favorevole ai contratti a tempo indeterminato ha mutato di un millimetro la realtà concreta della domanda italiana di lavoro: i contratti a tempo rappresentano il 67% delle nuove assunzioni, quelli a tempo indeterminato meno del 18%. Perché questo excursus numerico? Perché l’articolo 18 – nella mente di chi lo difende ideologicamente – è una tutela che dovrebbe contraddistinguere il mondo ideale, quello in cui il più dell’occupazione è rappresentata dal lavoro a tempo indeterminato. Non solo così non è, e dunque è una tutela per una minoranza di ipertutelati rispetto alla maggioranza degli avviati al lavoro. Ma finisce per rappresentare un freno e non un incentivo. Ed è esattamente questa la “trappola mentale” che può riscattare sul Jobs Act.
Veniamo infatti alle norme sulle quali il confronto era andato avanti, in commissione Lavoro al Senato. La modifica dell’articolo 18 rispetto alla riforma Fornero - che aveva fatto restare l’appellabilità giudiziale e la reintegra anche per i licenziamenti economici, sia pure dando come alternativa l’indennizzo – nel disegno di legge delega è una sorta di appendice a uno dei suoi pilastri, cioè il contratto di inserimento triennale a tutele crescenti. Oltre a prevedere sgravi contributivi ancora una volta caratterizzati dal favore verso il tempo indeterminato – fino due terzi degli attuali contributi per un neo assunto a tempo indeterminato, solo metà verso il tempo determinato – si pensa nel contratto d’inserimento anche a una modifica dell’articolo 18 attuale, facendolo restare la reintegra obbligatoria giudiziale solo per i licenziamenti discriminatori, e sostituendo il giudizio del magistrato su quelli economici con una indennità proporzionata all’anzianità di lavoro maturata.
E qui insorgono le differenze. Pietro Ichino, di Scelta Civica, da sempre propone che la reintegra per i licenziamenti economici scompaia per tutti, sostituendola con un’indennità a carico dell’impresa anche comprensiva del finanziamento a tempo della ricollocazione del lavoratore. Non è questo, ciò che propongono Alfano e Brunetta: dalle parole che usano si intende che parlano di una “moratoria” dell’articolo 18 per i neoassunti, Brunetta ha specificato per tre anni, in modo che alla fine del contratto d’inserimento e una volta assunti a tempo indeterminato la tutela attuale torni a valere per tutti. Il Pd si era spinto al massimo a far capire invece che la moratoria può valere solo per i primi sei mesi di prova, dopo i quali scatta il contratto d’inserimento a pieno titolo.
Chiarita la questione, arriviamo al punto. Una riforma vera dell’articolo 18 dovrebbe riguardare tutti i lavoratori ed essere collegata dunque alla riforma degli ammortizzatori sociali pure prevista nel Jobs Act, come da sempre chiede Ichino. E come ha fatto la Spagna, dove il licenziamento per motivi economici è stato consentito anche individualmente e la giudiziabilità è esclusa, sostituendola con indennizzo. Se ci s’impicca allo scontro ideologico, allora ha ragione Michele Tiraboschi: frammenta solo ulteriormente il regime di tutele, ma l’imprenditore saprà sin dall’inizio che alla fine le cose restano come oggi. Sarebbe l’ennesimo “intervento a margine” che ogni governo propone, con poco successo sulla domanda effettiva di lavoro.
Soprattutto, il governo eviti un rischio aggiuntivo: quello di graduare una riforma dell’articolo 18 limitata a una moratoria più o meno lunga, peggiorando però come oggetto di scambio il contratto d’inserimento, che sindacati e parte della sinistra vogliono – tanto per cambiare - il più possibile sostitutivo di tutte le altre forme di contratto, da quelli a tempo all’apprendistato, che dovrebbe rappresentare invece la via maestra per il lavoro in moltissimi settori. Solo Renzi in persona può scogliere il nodo. Ma una riforma ambiziosa non può essere una norma a tempo col rischio di peggiorare il resto.