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 2014  agosto 12 Martedì calendario

LA DOPPIA VITA DI VICTOR MASKELL SPIA GAY ALLA CORTE DI SUA MAESTÀ


Vorrei parlare di un libro dimenticato. Nel 1997 John Banville pubblicò L’intoccabile, che l’anno dopo uscì in Italia presso Guanda (nella collana Fenici Tascabili, traduzione di Massimo Birattari, pagine 378, e 7,75). È un romanzo straordinario: certo il più bello degli ultimi quarant’anni; del quale né critici né lettori hanno riconosciuto la vastità, la ricchezza, il terribile riso.
L’intoccabile ha delle fondamenta storiche, nella vicenda di spionaggio a favore dell’Unione Sovietica, che coinvolse due alti funzionari inglesi del Ministero degli Affari Esteri, Guy Burgess e Kim Philby, e un famoso storico d’arte, Anthony Blunt, presidente dell’Istituto Warburg e direttore della collezione artistica della regina Elisabetta II. Nel romanzo Blunt prende il nome di Victor Maskell. John Banville utilizza dei particolari e dei personaggi esistiti: la signora Thatcher, il re, la regina, Edoardo VIII, la signora Simpson, Stalin, deputati e ministri inglesi; e reinventa i fatti con una fantasia fiammeggiante e grottesca. Non c’è testo di storia che racconti con più perspicacia l’esistenza europea tra le due guerre: quei pensieri confusi, quelle chiacchere da ubriachi, l’eccitazione vertiginosa degli anni Trenta, quando sembrava che soltanto comunisti e nazisti avessero diritto di vivere.
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L’intoccabile possiede due grandi fonti: la voce delle Memorie dal sottosuolo di Dostoevskij e quella di Lolita di Nabokov; e le intreccia stupendamente. La voce di Blunt-Maskell parla, ostenta, si esibisce: denigra e si lamenta: ironizza, offende, parodizza: interroga, risponde, obbietta: vaga, lascia il filo, parla a vanvera; e non vorrebbe smettere mai di parlare. Sostiene di essere un «grande attore»: «un uomo con migliaia di facce»; e afferma che non bisogna mai smettere di recitare, nemmeno un momento, nemmeno quando si è soli nella propria stanza. «Sono un clown — ribadisce —: sgambetto avanti e indietro e cambio continuamente abito, mettendo un abito tanto per strapparmelo subito dopo, e sostituirlo con un altro. Di giorno, sono marito e padre, storico dell’arte, professore, consigliere della Regina, funzionario del Ministero degli Esteri. Appena cala la notte, divento Mr. Hyde, ed esco per le strade in caccia di preda, inseguo notizie militari, penetro nei pub più loschi e nei più loschi bagni pubblici».
Qualche volta Blunt-Maskell ammette la propria colpa originaria: egli non vive e non ha mai vissuto: è stato sempre un’ombra; e tutto quello che ha fatto l’ha compiuto soltanto per vincere questa vertiginosa spettralità. Certo, è stato un osservatore precisissimo: ha scrutato mogli, figli, amici, nemici; nei momenti più squisiti, è diventato come il suo pittore preferito, Nicolas Poussin, che trovava riparo in un angolo della scena e di lì osservava con stoica disperazione tutto ciò che era accaduto e stava accadendo. Ma c’era una terribile differenza. I personaggi di Poussin erano eroi del mito e delle Vite parallele di Plutarco: mentre lui, abitante dell’abominevole XX secolo, aveva incontrato soltanto i burattini di una farsa assurda e grottesca, che aveva satireggiato spiritosamente e alla quale aveva partecipato con ogni poro della pelle.
Tutti gli inglesi avevano visto in lui, in primo luogo, un critico d’arte, ricordato in tutte le bibliografie. Amava l’arte, o credeva di amarla. Quando guardava un quadro, capiva perché parliamo del cuore come sede della passione: ogni tocco di Velázquez o di Caravaggio o di Poussin o di Cézanne o di Picasso risuonava laggiù, nel profondo, dove la Bibbia indicava la fonte della conoscenza e della passione. Non gli piacevano né Matisse né Bonnard: amava le opere dure, sostenute, austere, dolorose, capaci di trasformare la sofferenza in puro spazio. Il suo quadro prediletto era la Morte di Seneca di Nicolas Poussin, che aveva identificato tra le opere tarde del pittore; e ora pendeva dalle pareti della sua camera, oggetto di estasiata beatitudine. Amava tenere lezioni al Warburg Institute, scrivere sui settimanali, contestare attribuzioni, comporre libri autorevoli e recensiti. Eppure, qualche volta, aveva dei dubbi: forse era soltanto uno studioso preciso ed accurato, senza nessuna passione spirituale.
Questa vita trionfale l’aveva portato a insegnare all’università, a dirigere il «Warburg», e a curare le Collezioni d’arte del re e della regina, fino a conversare con Giorgio V e con Elisabetta II, che apprezzavano il suo spirito e gli affidarono una missione confidenziale. Ma, come Blunt-Maskell ripete, esisteva un mister Hyde: con la parte notturna di sé, egli era una spia dell’Unione Sovietica e un furibondo omosessuale. Non amava il comunismo: disprezzava Stalin e l’orribile macchina poliziesca dell’Unione Sovietica, che in quegli anni condannava a morte milioni di contadini e poi di comunisti staliniani, nelle purghe del 1937-1941. Molto presto, quando studiava a Cambridge, diventò spia dell’Unione Sovietica. Appena venne scoperto, i giornalisti inglesi credettero che egli fosse un fanatico comunista.
Ma, a lui, del comunismo e del marxismo non importava niente: forse avrebbe amato Bakunin e gli anarchici del secolo passato; in realtà non aveva nessuna fede o entusiasmo politico. Quando venne invitato al Cremlino, fu ricevuto da un uomo quasi calvo, basso, vivace: una specie di sosia più giovane di Martin Heidegger. «Benvenuto, compagno, benvenuto, benvenuto, al Cremlino». La burocrazia sovietica gli sembrò ridicola e sinistra: specie la risata tipica, che variava dal breve nitrito all’ansito. L’ingrediente principale di questa risata era una specie di stanchezza annoiata. Chi rideva, aveva visto tutto, ogni forma di spavalderie e di pompe, ogni tentativo riuscito o fallito di raggiro e di seduzione; e umiliazioni, lacrime, grida di pietà, tacchi che risuonavano sulla pietra e celle che si rinchiudevano con uno schianto. Se questo era il futuro, era orribile; e non avrebbe mai funzionato.
Se Blunt-Maskell spiava, lo faceva per un’altra ragione. Era frivolo. La vita inglese lo annoiava. Voleva essere duplice, triplice, molteplice. Lo spionaggio aveva, per lui, la qualità del sogno. Nel mondo delle spie, come nei sogni, il terreno era sempre incerto. Posava il piede su ciò che sembrava solido: esso cedeva. E lui si trovava a precipitare in caduta libera, attaccandosi a cose che stavano anch’esse cadendo. L’instabilità costituiva sia l’attrazione sia il terrore della spia. A una spia non veniva richiesto di essere sé stesso. Qualunque cosa facesse, c’era sempre un altro lui: un lui alternativo e invisibile, che si metteva a osservare, valutare, ricordare. Questo era il potere segreto della spia: di essere e non essere, distaccarsi dal proprio io, rimanere sé stesso e diventare un altro.
In quegli anni, in Gran Bretagna, tutti spiavano. Qualcuno era entrato in un gruppo losco di simpatizzanti nazisti, legandosi a un famigerato deputato filo-hitleriano, ex ufficiale della Guardia, che aveva un insaziabile appetito per i giovani maschi della classe operaia. Fra quelle spie, una delle più accorte era Blunt-Maskell. Comunicò ai russi i codici nazisti, decifrati dal Ministero della Guerra inglese: denunciò un agente inglese, che era penetrato negli uffici del Politburo, senza preoccuparsi minimamente del fatto che sarebbe stato torturato e fucilato: rivelò la chiave dei messaggi della Luftwaffe; e il progetto di nuovi carri armati tedeschi, che, grazie a lui, vennero sconfitti nella battaglia di Kursk. Per questo, il Politburo gli assegnò l’Ordine della Bandiera Rossa.
Dovunque, a Londra, c’erano party. Tutti bevevano, fingendo di divertirsi, mentre erano divorati da una disperazione trattenuta. L’alcool li spaventava sempre di più, così che i bevitori dovevano gridare sempre più forte, come volessero terrorizzare i demoni loro signori. In uno stadio dell’ubriachezza, pareva di avanzare con sbalorditiva, irridente facilità attraverso una porta chiusa. Intanto, le bombe tedesche cadevano su Londra. Il silenzio penoso ed oppressivo della grande città si lacerò di colpo. Nel brontolio di un grappolo di bombe, che esplodeva lungo i viali, pareva di udire una specie di risata celestiale, quella di un bambino, che osservava dall’alto la sua opera catastrofica. La città era semisommersa da un mare di fiamme. Il cielo era segnato dalle tracce della contraerea, e dai fari dei riflettori, che oscillavano, giravano, s’impigliavano nei bombardieri tedeschi. «Avrei dovuto — Blunt-Maskell scrisse più tardi — pensare a Bosch, a Grünewald, all’Altdorfer di Ratisbona».
Proprio quella notte tremenda, tra le bombe, le fiamme ed i morti, Blunt-Maskell scoprì la gioia e il terrore di essere omosessuale. Non solo lui lo era: ma quasi tutti coloro che spiavano per l’Unione Sovietica — e chissà quanti uomini politici, funzionari, economisti, studiosi, forse sovrani. Quasi tutti avevano cominciato ad Oxford e a Cambridge, e non avevano più smesso di frequentare i pub loschi e i non meno loschi bagni pubblici, sebbene fossero pudicamente mascherati da virtuosi pater familias. «L’amore, l’ho sempre pensato, è tanto più intenso quanto più indegno ne è l’oggetto»: così disse Blunt-Maskell, aggirandosi tra i ruffiani, i mantenuti e le checche, come se volesse aggiornare una massima di La Rochefoucauld.
A volte, apparivano vaghi barlumi di speranza. Ecco «un corridoio dipinto di verde con una finestra all’estremità più lontana, dai cui vetri smerigliati penetrava il bianco splendore del sole, la luce di un altro mondo»: dentro di lui, uno straniero desiderava disperatamente raggiungere quella finestra col suo fulgore latteo, la promessa della libertà e della fuga.
Poi si dissolse ogni speranza: tutto precipitò nella tenebra. I compagni di spionaggio raggiunsero Mosca: Blunt-Maskell fu scoperto dal controspionaggio inglese: venne denunciato pubblicamente da Margaret Thatcher, umiliato, e denigrato dai giornali; e perse tutti gli onori di cui era stato così vanitoso. «Mi chiedo — scrisse sul suo diario — come sarà morire. Immagino che sia una lenta e inesorabile avanzata in una confusione sempre più profonda: una sorta di muta e divagante ubriachezza da cui non si uscirà mai». Infine, negli ultimissimi momenti di esistenza, vide nell’alto il cielo che Nicolas Poussin amava: azzurro pallido, cobalto, porpora pallido; disteso su grandi montagne di nuvole, color ghiaccio sporco, con morbidi bordi ramati, distanti, maestose, silenziose.
Era giunto il momento. Estrasse dal cassetto di un comò una vecchia pistola Webley, e si tirò un colpo al cuore. «Padre, il cancello è aperto». Come aveva detto Pascal, «le dernier acte est toujours sanglant».