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 2014  agosto 11 Lunedì calendario

QUEI POPOLI IN FUGA TRA PAURA E IDENTITÀ PERDUTA

Iraq, Siria, Nigeria, Ruanda, Somalia, Sudan… le ormai infinite terre dei fuggiaschi, dei popoli esuli: chi oserebbe negare che l’Ingiustizia sia organizzata, un universo più reale di quello che ci rivelano i sensi con i suoi sinistri paesaggi, il suo cielo di piombo, i suoi astri crudeli?
Un regno insieme spirituale e carnale di una identità prodigiosa, di un peso quasi infinito a fronte del quale i regni della terra assomigliano a figure o a simboli. Un regno a cui non si oppone realmente che il misterioso regno di dio che i fuggitivi nominano, ahimè! senza conoscerlo e di cui attendono tuttavia l’avvento. Per scoprire che anche coloro che li braccano, l’arma in pugno, a loro volta gridano il nome di dio, un dio più forte e spietato. Così l’Ingiustizia, sulle montagne curde e nelle foreste del Congo, sulle frontiere dove non c’è misericordia scivola tra le loro mani, li morde e da allora essi le appartengono senza saperlo, hanno nelle loro vene il suo gelido veleno.
Sono stato in alcuni punti del mondo ideali per osservare nei fuggiaschi dalle guerre tribali e fanatiche quel distacco essenziale, fondamentale che non serba alcun colore di vita, una specie di trasparenza sovrumana. Sono lì che avvengono le confidenze che voi riceverete di rado per la semplice ragione che le soglie della morte, non si trovano su nessun cartello indicatore della via. I loro ricordi di guerra e di persecuzione assomigliano ai ricordi dell’infanzia. Nei volti dei cristiani assiepati come armento a Erbil ho rivisto gli stessi occhi dei somali che incrociai negli Anni Novanta, in fuga (ma quanti restarono indietro) dalla carestia e da altri signori della guerra. O negli hutu braccati dai vendicatori tutsi che continuavano a marciare sui sentieri ancora lividi e logorati dai passi di chi li aveva preceduti, sotto nuvole che sembravano appese come abiti stesi ad asciugare nel cielo frastagliato e sempre più buio del Kivu, come se si fosse sporcato dopo giorni e giorni di vicinanza a quella immane e miserabile moltitudine umana.
I fuggiaschi eterni, seduti sui calcagni, ti guardano. Non fanno scene, non piangono, pensano i lunghi intimi pensieri di chi sa che deve mutare l’intero corso di una vita. Si sono fermati per un istante nella loro corsa insaziabile in un angolo di mondo che si sente esser piccolo a causa loro. Sono il popolo nuovo del nostro tempo. Senza bandiere, identità, speranza. I loro racconti: le città e i paesi percorsi, abbandonati con le case gli averi i morti, li enumerano come una invocazione di nomi sacri, come una implosione di cieli lontani e diversi. Inquieti come si nascondono i fuggiaschi, presto dovranno ripartire da questa sosta per tirare il fiato e i loro occhi balenano, dicono quello che sperano di raggiungere e di vedere: la frontiera, un fiume, il mare, una armata amica. Ma il crepuscolo si oscura, a poco a poco il tepore dell’aria di dissipa come un sogno buono e pensano solo a tutto quello che hanno veduto.
Hanno un bell’ andare di chilometro in chilometro, di terra in terra. Si trascinano dietro, dappertutto, la vedovanza inconsolabile della loro identità perduta. Che forza ci vuole per essere così inconsolabili! Non viaggiano per attenuare il loro dolore ma per aumentarlo, per collocarlo in tutto il mondo. Camminano sulla sabbia dei loro deserti in lunghe file colorate, vedono le larghe impronte ben regolate e solidamente piantate che imprime ognuno di loro, a migliaia, sulla sabbia. I sassi scricchiolano sotto le loro calzature e sbalzano via. Sentono il rumore dei loro passi, pensano ai loro passi, a quei passi di cui non rimarrà più traccia il giorno dopo: e che tuttavia sono. Sono in loro. I loro viaggi non ingrandiscono; si ha il tempo di deporre l’angoscia della propria anima per vedere le cose alle quali si passa accanto? Non si viaggia nel passato. Tutto per i fuggiaschi del terzo millennio è esistito. E le donne. Lo senti quale coraggio debbano raccogliere, quelle donne, per continuare a vivere? E tutto quello che non possono dirci, quello che ci nascondono? Senza cuore, sì è il tempo questo in cui dovremmo vivere senza cuore.
La conseguenza di questa emigrazione nuova del nostro tempo è la creazione di tipi completamente nuovi di esseri umani, individui che si radicano in idee piuttosto che in luoghi, tanto nelle memorie che nelle cose materiali, gente obbligata a definirsi sulla base della loro alterità. Gente nel cui profondo avvengono strane fusioni, unioni senza precedenti fra ciò che sono stati e il luogo nel quale si vengono a trovare.
La paura accompagna questi popoli in fuga. La paura: il vero segno del nostro tempo. Di tutte le pazzie di cui siamo capaci è sicuramente la più crudele. Nulla eguaglia il suo slancio, nulla può sostenere il suo urto. L’ira che le somiglia non è che uno stato passeggero una brusca dissipazione delle forze dell’animo. La paura invece, forma con l’odio, uno dei composti psicologici più stabili che esistano. Nelle guerre di questo tempo viene da chiedersi se odio e paura, così affini, non siano giunti all’ultimo stadio della loro reciproca evoluzione, se non si confonderanno domani in un sentimento nuovo, ancora sconosciuto, di cui qualcosa si rivela già in una voce, in uno sguardo.
Domenico Quirico, La Stampa 11/8/2014