Stephen Roach, Il Sole 24 Ore 10/8/2014, 10 agosto 2014
QUANTO DISTANO GLI USA DALLA CINA
Il Dialogo economico e strategico tra Usa e Cina, appena concluso, ha rappresentato una grossa delusione. In un momento in cui i due Paesi devono fronteggiare sfide di alto profilo, è mancata la strategia. Nessun dialogo, ma una serie di discorsi dal copione già scritto. Washington e Pechino si sono dimostrate incapaci di affrontare il problema di un deficit di fiducia sempre più devastante, che rappresenta la minaccia più seria alle relazioni sino-americane da un quarto di secolo a questa parte.
Le condizioni che hanno preceduto il colloquio non erano facili. Il Tesoro Usa si era lamentato dello yuan, che si è deprezzato del 2,4% rispetto al dollaro nella prima metà del 2014 dopo essersi rivalutato del 37% nei precedenti otto anni e mezzo. Il dipartimento di Stato Usa e il ministero degli Affari esteri cinese erano impegnati in una guerra verbale sulle dispute territoriali sempre più aspre nel Mar Cinese Orientale e in quello Meridionale.
Ma le nubi più scure erano quelle che si addensavano sul fronte cibernetico. Due mesi prima del Dialogo economico e strategico, il dipartimento di Giustizia degli Usa aveva incriminato cinque ufficiali dell’Esercito popolare di liberazione, imputandoli di 31 reati, dalla frode e pirateria informatica al furto di identità e spionaggio economico. Come reazione, la Cina aveva sospeso la sua partecipazione alla collaborazione militare bilaterale sulle minacce cibernetiche. Intanto, le rivelazioni sulla pervasività delle attività di ciberspionaggio degli Usa iniziavano ad avere ripercussioni da Capitol Hill a Berlino, con l’approvazione di leggi per mettere sotto controllo l’operato dell’Agenzia per la sicurezza nazionale (Nsa), fino a quel momento dotata di larga libertà d’azione, e il gelo nei rapporti con un alleato come la Germania.
Gli scambi di accuse sul ciberspionaggio riguardano principalmente le motivazioni. Gli Usa si sono affrettati a distinguere tra spionaggio commerciale e militare: per la Cina questa distinzione ha poca rilevanza: c’è poca differenza tra le intrusioni informatiche della Nsa e quelle delle loro forze armate, specialmente considerando che le intercettazioni Usa riguardano aziende straniere, negoziatori commerciali e leader internazionali, tutti impegnati in attività commerciali. Più che le capziosità morali quello che conta è il rimpallo di accuse, manifestazione visibile della sfiducia reciproca sempre più profonda creata da una fase distruttiva della codipendenza tra Cina e America.
In un tale contesto non c’è da stupirsi che il Dialogo strategico ed economico abbia prodotto risultati così miseri. La collaborazione militare in campo informatico resta sospesa e i negoziati su un trattato bilaterale per gli investimenti (un quadro normativo sarebbe utile per aprire i mercati dei due Paesi alle reciproche imprese, sempre più globalizzate) sono stati deludenti. Un anno fa c’era stato un incoraggiante passo avanti: quest’anno c’è stata una battuta d’arresto, perché l’avvio ufficiale di negoziati su quali settori escludere (la "lista negativa", da sempre oggetto di controversie tra Usa e Cina), è stato rimandato al 2015.
Il problema di questo rinvio costante è che si rischia di arrivare all’anno delle presidenziali in America, un periodo in cui il dibattito sulla Cina cresce di intensità. Se a questo aggiungiamo un Congresso polarizzato e disfunzionale, ci si rende conto che i tempi per un trattato sugli investimenti cominciano a ricordare in modo inquietante la trattativa decennale che è stata necessaria per far entrare la Cina nell’Omc, nel 2001. Se le cose si protraessero a lungo, a rimetterci sarebbero entrambi i Paesi, con le gravi e urgenti sfide che devono affrontare sul fronte economico.
Mi trovavo in Cina nella settimana che ha seguito il Dialogo strategico ed economico, negli ambienti governativi si faceva un gran parlare delle nuove opportunità di crescita che offrirebbe un riequilibrio trainato dai servizi. C’era anche la consapevolezza dei progressi realizzati su questo versante, con il settore terziario cinese (i servizi) che cresce più rapidamente di quello secondario (industria manifatturiera e costruzioni) per il terzo anno di fila, quanto basta a trasformare per la prima volta i servizi nel settore più importante dell’economia cinese.
I servizi in Cina rappresentano il 47% del Pil, ben lontano dalla quota del 60-65% delle classiche economie a medio reddito. Le autorità di Pechino si rendono conto che il progresso verso un riequilibrio economico trainato dal terziario è destinato ad arrestarsi senza il talento, i sistemi, l’esperienza e le dimensioni globali dei fornitori di servizi multinazionali. E chi meglio degli Usa, l’economia dei servizi più grande del mondo, può fornire ai cinesi quello di cui c’è bisogno? Considerando che gli Usa hanno avuto un altro anno di crescita fiacca, sarebbe stato logico attendersi più interesse per questa opportunità di crescita da parte statunitense.
L’incapacità dei leader americani e cinesi di rendersi conto dei vantaggi reciproci di un trattato sugli investimenti è preoccupante. Questa lentezza su una riforma che porterebbe senza alcun dubbio vantaggi a entrambi i contraenti lascia pensare che gli Usa e la Cina non attribuiscano importanza ai propri imperativi di crescita, oppure che non siano disposti a darsi da fare per mettere rimedio al deficit di fiducia che divide le due sponde del Pacifico.
Il mio sospetto è che il nodo sia questo. I leader sono consapevoli delle sfide per la crescita, ma né Washington né Pechino sembrano disposte a prendere di petto il problema dell’esplosione di sfiducia reciproca originata dalla questione dello spionaggio informatico. Dietro il rimpallo di accuse, c’è un’ovvietà: gli hacker ci sono in Cina e negli Usa, e sia la Cina che gli Usa non riescono più a controllarli. La pirateria informatica cresce a un tasso esponenziale nel nostro mondo interconnesso. Cercare di stabilire di chi sia la colpa del problema non ha senso. Accettare le responsabilità comuni per stemperare le tensioni è fondamentale per poter confrontarsi sulle altre sfide geostrategiche ed economiche. Il fallimento del Dialogo strategico ed economico è stato un segnale d’allarme, l’ennesimo indizio di una relazione bilaterale che marcia nella direzione sbagliata. Continuare su questa rotta non è più proponibile.
(Traduzione di Fabio Galimberti)
Stephen Roach, Il Sole 24 Ore 10/8/2014