Alberto Negri, Il Sole 24 Ore 10/8/2014, 10 agosto 2014
IL CALIFFATO ALLA PORTA DI ERDOGAN
ISTANBUL.
Possono un sultano e un califfo convivere fianco a fianco? La storia dice di no e a quanto pare anche l’attualità. Il premier Tayyep Erdogan, detto il Sultano del Bosforo per le sue tendenze autoritarie, che secondo i sondaggi oggi dovrebbe essere incoronato presidente della Turchia, per la prima volta con il voto popolare diretto, confina ormai per centinaia di chilometri con il Califfo Abu Bakr Baghdadi, sotto il tiro dei caccia americani.
I due si fronteggiano e neppure troppo a distanza. Erdogan ha lasciato che per tre anni i jihadisti attraversassero indisturbati i confini della Turchia con l’obiettivo di abbattere il regime siriano di Bashar Assad e Baghdadi, capo della branca irachena di al-Qaeda, ne ha approfittato per reclutare combattenti – il 10% dei suoi miliziani sono turchi – e ampliare il raggio della sua azione e della propaganda.
A un chilometro dall’aereoporto di Istanbul nel quartiere di Bagcilar, superate le tende della Fondazione musulmana che nel 2010 finanziò la missione della Mavi Marmara a Gaza (10 turchi uccisi dalle forze speciali israeliane), si trova un modesto negozio, l’Islamic Giyim, che vende magliette a abbigliamento sportivo con il logo dello Stato Islamico, la bandiera nera del monoteismo islamico. Ma è sul sito internet Takvahaber che l’Isil lancia i suoi messaggi più penetranti, destinati a raccogliere fondi e adesioni per il Califfato, la cui capacità militare deriva in gran parte dai flussi finanziari provenienti dalle monarchie arabe sunnite del Golfo che in Iraq come in Siria puntano a spezzare all’asse sciita tra Teheran, Damasco e gli Hezbollah libanesi.
Erdogan si è prestato volentieri a giocare la partita dei sunniti contro l’Iran e la Siria, tentando di portare a casa qualche risultato concreto, come è accaduto nel Kurdistan iracheno dove una pipeline adesso esporta il petrolio dei curdi sui terminali turchi. Ma il nuovo Stato islamico si è seduto al tavolo dei giocatori e con la violenza e il terrore si è portato a casa il petrolio siriano e le risorse energetiche e idriche dell’Iraq del Nord.
Il Califfo oggi ricatta il Sultano e il Sultano mette sotto tiro il Califfo. Baghdadi tiene in ostaggio 50 cittadini turchi tra cui il console di Mosul, un consigliere di Erdogan, e la Turchia, per ripicca, sta chiudendo i rubinetti dell’acqua che alimentano in Siria le dighe in mano allo Stato islamico dell’Iraq e del Levante (Isil) che ha risposto minacciando di "liberare Istanbul". Fa bene Obama a essere prudente sugli effetti dei bombardamenti contro il Califfato: in questa regione il destino degli uomini e degli Stati appare precario, come quello delle minoranze cristiane e degli yazidi, eredi di un ramo esoterico zoroastriano, dei quali ci si accorge adesso con colpevole ritardo, quando ormai sono in estinzione. Un mosaico di religioni e di culture si sta frantumando e renderà ancora più povere e intolleranti le nazioni che nasceranno domani.
Queste sono le cronache del nuovo Medio Oriente, assai distanti da quelle immaginate da George Bush junior, quando attaccò Saddam nel 2003, e pure da quanto si pensava potesse accadere nel 2011 con le rivolte arabe. Da queste parti non solo non è mai arrivata la democrazia ma si sono disintegrati interi stati, dalla Siria all’Iraq, dove il vuoto è stato riempito dai radicali islamici.
La Turchia un tempo era ai margini di questo Medio Oriente tormentato e bussava da decenni alle porte dell’Europa. Con l’ascesa al potere nel 2002 del partito islamico moderato Akp, Ankara è stata sempre più coinvolta nelle dinamiche regionali, anche per motivi economici: la base elettorale musulmana di Erdogan è costituita da una miriade di piccoli e medi imprenditori anatolici che cercavano e cercano nuovi mercati di esportazione. Erdogan con la sua politica estera li ha portati nel cuore del mondo arabo, in Asia, in Africa, in Russia, ed è stato abile a restituire ai turchi la sensazione di avere un redditizio "soft power" ottomano da spendere tra gli islamici.
Le cifre gli hanno dato ragione: è diventato il padre di un miracolo economico che in un decennio ha triplicato il reddito pro capite portando la Turchia al 16° posto tra le economie mondiali, con la promessa di entrare tra le prime dieci nel 2023, anno fatidico del centenario della repubblica fondata da Kemal Ataturk.
Erdogan non soltanto vuole riscrivere la costituzione in senso presidenziale ma anche la stessa storia di un Paese nato laico e secolarista sulle rovine dell’Impero ottomano. L’opposizione rappresentata dal candidato del partito repubblicano (Chp) Ekmeleddin Ihsanoglu e dal curdo Selahattin Demirtas non è in grado di ostacolarlo e forse neppure di rinviarlo a un eventuale ballottaggio il 24 agosto. Dopo essere sopravvissuto alla rivolta di Gezi Park nel 2013, agli scandali e agli scossoni finanziari, Erdogan è passato sopra come un rullo ai suoi nemici, dall’Imam Fetullah Gulen ai giornalisti scomodi, che fa licenziare – è accaduto ieri con il direttore di Hurriyet Enis Berberoglu – oppure sbattere in carcere. Sa di potere contare su una solida maggioranza di un elettorato religioso, conservatore, nazionalista e anche marcatamente anti-europeo. La Turchia del Sultano Erdogan non guarda più all’Europa, che l’ha tenuta troppo tempo sulla soglia, ma dietro l’angolo ora c’è il Califfo Baghdadi, non Bruxelles.
Alberto Negri, Il Sole 24 Ore 10/8/2014