Antonio Gnoli, la Repubblica 10/8/2014, 10 agosto 2014
EVA CANTARELLA
[Intervista] –
Nella visione mitologica il mare era considerato dai greci una necessità e un pericolo. Non potevano ignorarne l’esistenza, l’estensione, l’inaggirabile presenza. Andava affrontato, anche se le tecniche marinare non erano sofisticate e le insidie si rivelarono numerose. «Sono convinta che una delle ragioni per cui quella civiltà sviluppò un forte senso dell’ospitalità si legasse proprio alla pericolosità del mare», commenta Eva Cantarella, una delle nostre massime studiose del mondo antico: «Il mare greco era il Mediterraneo. Che le posso aggiungere? Per me un mondo di favole e di miti che mio padre quando ero piccola raccontava a me e a mia sorella prima di addormentarci».
Suo padre fu a sua volta un illustre studioso del mondo antico. Come ha vissuto questo rapporto: contrasto, complicità, riconoscenza?
«Mi trasmise l’amore per l’antico. Spesso la sera, prima di chiudere gli occhi, fantasticavo al suono della sua voce, intorno alle gesta di Odisseo contro il ciclope o delle sirene che appresi, in seguito, non erano animali marini ma in origine uccelli. Quando crebbi, e giunse il momento di scegliere la facoltà, sentii il bisogno di non confondermi con gli studi paterni».
Cosa la frenava?
«In quanto figlia di un illustre antichista mi avrebbe fatto orrore essere additata come la “figlia di...”. Decisi di iscrivermi alla facoltà di Legge».
I suoi erano di Napoli.
«Mio padre era nato a Messina. Insegnò a Napoli e poi si trasferì a Milano e noi con lui. Avevo cinque anni. Ho sofferto quella città, almeno fino al liceo. Che fu liberatorio. Mi iscrissi al Beccaria, la scuola della buona borghesia. Non avevo molta voglia di studiare. Ero abilissima nel copiare. Presi la maturità nel 1956. Sentivo confusamente i primi fermenti politici: il trauma dell’Ungheria mi sembrò il frutto di una profonda speranza tradita».
Quanto profonda?
«Abbastanza per una ragazza che pensava che il mondo andasse cambiato. Molto prima che giungesse il Sessantotto. Milano allora cominciava ad essere interessante. La sera c’erano i primi reading di poesia. Fui perfino portata ad assistere a delle lezioni sui Manoscritti filosofico politici di Marx. Erano giovanissimi allievi di Enzo Paci a discuterne. Fuggii dalla noia. Non ricordo se c’era anche quello che in seguito sarebbe diventato mio marito: Guido Martinotti. Ci conoscemmo al liceo e ci sposammo alla fine dell’università. Nel 1961. Un paio di anni dopo partimmo per Berkeley, dove Guido aveva ottenuto una borsa di studio».
In cosa?
«Era un sociologo. Lo raggiunsi con qualche apprensione e molta curiosità verso un paese che mi pareva vitale e arrogante. Avevano appena ucciso Kennedy. La notizia sconvolse Berkeley. La morte di un presidente giovane fu un duro colpo sulla aspettative di una generazione che non si identificava con il ruolo che l’America stava assumendo nel mondo. Poi lo sconcerto finì e la vita riprese: le proteste, gli amori, la controcultura si dimostrarono più forti di prima».
Come visse tutto questo?
«Stavo lavorando a una ricerca sul matrimonio nell’antica Roma. Passavo molto tempo in biblioteca e casualmente scoprii alcune implicazioni che mi fecero appassionare al diritto greco. Quanto al resto ero pienamente coinvolta dal nuovo clima culturale. L’università ospitava Allen Ginsberg e Gregory Corso. A San Francisco, Ferlinghetti aveva fatto della sua libreria un posto di grande libertà intellettuale. La marijuana circolava in quantità industriale e l’Lsd aveva trovato in Timothy Leary il suo ambiguo profeta».
E gli amori?
«C’erano i figli dei fiori e i figli di puttana che volevano approfittare del clima favorevole. Ero fresca della lettura del Secondo sesso di Simone de Beauvoir. Capii che donne non si nasce ma si diventa. Mi aveva appassionato la sua storia con Sartre, all’insegna della libertà reciproca».
La famosa “coppia aperta”.
«Diciamo senza gli stretti obblighi della fedeltà coniugale. Per la mia generazione fu importante. Poi, quando scoprii che Simone supplicava Nelson Algren, neanche fosse diventata il suo tappetino personale, ci restai male».
E tornò al matrimonio romano?
«Mi appassionai al diritto greco».
Una materia fantasma.
«Mica tanto. Certo non esistevano i giuristi, ma le leggi c’erano, eccome. Solo che le dovevi rintracciare tra le fonti letterarie. Atene aveva i suoi logografi, gli oratori giudiziari. Famosi furono Lisia e Demostene, retori in grado di scrivere un’orazione giudiziaria».
Non erano costruzioni incerte?
«Si basavano sull’abilità del retore. Curiosamente la legge non era un fine, ma un mezzo di prova. Le fonti si facevano insidiose. Scrissi un libro sul diritto omerico, che era diritto consuetudinario dal momento che non esisteva una riflessione su di esso».
A proposito di libri, è appena uscito il suo Ippopotami e sirene dove sono posti a confronto Erodoto e Omero. Cosa li distingue?
«Interpretano due differenti modelli culturali. Erodoto viaggia tantissimo. Sviluppa un’apertura mentale che spesso i greci non hanno. Con lui nasce il primo grande antropologo. Le differenze da Omero — o da ciò che Omero rappresenta — sono enormi. Omero è chiuso nel suo mondo. Arroccato contro coloro che sono definiti “barbari”. Crea una poesia con lo scopo di trasmettere una cultura che abbia una funzione pedagogica tutta interna al suo mondo».
Omero rafforza l’immagine dell’uomo greco.
«È interamente al suo servizio, così come Erodoto è al servizio del mondo, anche di quello che di volta in volta scopre. Egli pensa in termini di curiosità. Omero in termini di forza e di conquista. Non a caso egli pone al centro la figura dell’eroe».
Chi è l’eroe greco?
«È quello il cui valore è determinato dal coraggio e dalla forza, anche dalla forza della parola che sa imporsi nelle assemblee. Non occorre attendere Gorgia perché si sviluppi una tensione oratoria. La prima assemblea omerica si svolge a Itaca con i Proci. I guerrieri achei si affrontano a parole nelle assemblee panelleniche. È tutto un fiorire di confronti verbali, prima ancora che fisici».
A proposito di Proci e di Odissea, cosa pensa del “complesso di Telemaco” e del fatto che non ci sono più funzioni paterne?
«L’idea che egli possa prendere il posto di Ulisse non mi convince. Telemaco è un personaggio inesistente. Talvolta sbeffeggiato. Non ha alcuna legittimità. Non ha rilievo nel poema».
Può ambire al potere che il padre non è più in grado di esercitare?
«Fino a quando Ulisse non torna. E a quel punto deve lasciare il potere al padre. È Ulisse che libera Itaca, non Telemaco».
Tra le virtù di un mito non c’è anche quella di poter essere forzato?
«Certo, Edipo — come osservava Vernant — è senza complessi. È Freud a farglieli venire. Forse il mio atteggiamento è troppo filologico e la forzatura, effettivamente, un modo per farlo rivivere oggi».
Lei, che si è dedicata al versante femminile del mondo greco e romano, come giudica la figura di Penelope?
«Potere femminile zero. E sussistono molti dubbi sulla sua sbandierata fedeltà».
Intende dire che il modello di donna integerrima che attende il ritorno di Ulisse non regge?
«Da tempo, almeno da Apollodoro, quel modello di fedeltà coniugale è stato messo in discussione. Del resto, quando Telemaco va a Sparta e gli chiedono chi sono i suoi genitori risponde che la madre è Penelope, mentre è incerto sul nome del padre».
Accennava prima all’epica omerica che ha funzione pedagogica. In questo caso?
«Si tratta come sempre di trasmettere valori e comportamenti. Quelli femminili si legano alla fedeltà e al silenzio. Ma non sempre è possibile. Le circostanze diverse possono dar vita a modelli diversi. Clitennestra è l’adultera assassina. Ma qualche ragione deve pure averla se le uccidono la figlia Ifigenia. In certa letteratura femminista Clitennestra è la donna che si ribella alla cultura patriarcale. Un po’ come Medea».
C’è anche il caso di Antigone.
«L’ho sempre vista con gli occhi del giurista».
Difende i valori della famiglia.
«Vuole dare sepoltura al fratello contro i valori della Polis. Creonte, il re, si oppone, perché considera Polinice un nemico della patria. Ed emette un decreto di morte contro chiunque voglia violare la sua decisione».
Antigone sceglie di contrapporsi a quella decisione.
«E lo fa con un’ortodossia inusitata».
Prende le parti di Creonte?
«Nonostante tutto lo considero un buon governante. Finirà anche lui nel peggiore dei modi, ma questo è anche il risultato della tragedia che non dà mai soluzione completa al conflitto».
Altrimenti che tragedia sarebbe.
«Già».
Non le piace proprio Antigone?
«Ha un carattere freddo, inflessibile, basta vedere come tratta la sorella! Dice cose strane, non accetta confronti con nessuno».
Ma è la legge del cuore che lei fa prevalere. Non è questo il fascino che è sopravvissuto nei millenni?
«Ma è un cuore duro. Di pietra. Neanche a dire che in lei si intravedono i tratti di un nuovo potere femminile. Perché alla fine si oppone al potere della Polis nel nome della famiglia. Non ha nessun fascino. È la tragedia affascinante».
Cos’è il sesso nell’antica Grecia?
«Gli uomini greci hanno il terrore della sessualità femminile. Quando Zeus ed Era litigano per sapere se nell’atto sessuale prova più piacere l’uomo o la donna, interrogano Tiresia, che risponde: nove parti le prova la donna e una sola l’uomo».
Sentenza pericolosa?
«Pericolosissima. Al punto che si comincia a pensare che questa sessualità prorompente va controllata».
Come?
«Con i modelli virtuosi e un’accentuazione della virilità che è vista come un’attività sessuale sia nei riguardi delle donne che degli uomini».
Si è molto parlato e scritto sull’omosessualità nel mondo greco.
«Era disciplinata da un costume molto rigido. Fino a quando non entrava nell’età della ragione il ragazzo era equiparato a una donna e trattato come tale. Quando diventa cittadino non può più avere un ruolo passivo. Anche il mondo romano conserva questa idea ma la confina agli schiavi e ai nemici su cui il romano può, in un certo senso, rivalersi. Il cristianesimo metterà fine a tutto questo ammettendo la sessualità solo come pratica riproduttiva».
Fu un processo lento?
«Fino a un certo punto. Le costituzioni imperiali punivano soprattutto la sessualità passiva. Bisognerà arrivare a Giustiniano perché venga punita anche quella attiva».
Si può ridurre la sessualità alla punizione?
«Sappiamo che esistono società più sessuofobiche di altre. Foucault ha scritto pagine interessanti in tal senso. A questo riguardo mi torna in mente il periodo trascorso alle scuole medie dalle suore Marcelline. Un orrore».
Un orrore?
«Tra costoro spiccava suor Marì, una specie di capessa che quando vedeva arrivare i bambini gridava: vade retro Satana . Una volta, incautamente, mi sedetti sul calorifero e suor Marì guardandomi in cagnesco disse: scendi di lì subito che il caldo sconvolge i sensi».
Cosa ha rappresentato per lei la libertà sessuale?
«Con mio marito ci sposammo giovani. Lui sapeva che avrei fatto qualcosa di molto autonomo. Ho insegnato, in molte università, in giro per il mondo. E siamo stati indipendenti e liberi di decidere come comportarci. Abbiamo resistito alle crisi. Abbiamo sempre tenuto due case separate e in cinquant’anni di matrimonio, con un divorzio e poi di nuovo sposati, abbiamo sempre pensato che, se ne valeva la pena, era meglio sperimentare una storia che rifiutarla».
Avete spesso messo alla prova il vostro rapporto?
«Spesso no. Ma con la consapevolezza che niente fuori da questo rapporto aveva il carattere definitivo. Di definitivo ci siamo stati noi. Guido è morto da un paio di anni, a causa di un aneurisma. Mi manca tutto di lui. Gli effetti sono stati molto destabilizzanti. Ancora oggi mi chiedo cosa avrebbe detto attorno a una certa scelta politica o di vita. Aveva il dono di orientarmi. Per me che non ho mai conosciuto la fede la sua parola è stata a volte rivelatrice».
Accennava agli effetti destabilizzanti.
«Diciamo pure un forte disorientamento».
Che ha vissuto come?
«Con tristezza e panico. Ma un panico senza voce, senza emozione. Non ho mai desiderato di morire. Una volta mi faceva paura la morte, poi solo rabbia. Infine è subentrato un senso di tranquillità. Perché finché ci sono, in qualche modo, continua ad esserci ancora lui. Perciò vorrei vivere a lungo. Come dice Eschilo: essere morti è come non essere mai nati».
Antonio Gnoli, la Repubblica 10/8/2014