Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  agosto 10 Domenica calendario

«SE VENGO ABBATTUTO IN VOLO NON VOGLIO RIMPIANGER NULLA»


Algeri, 3 luglio 1944 non inviata
Caro generale,
Non ho scritto una sola riga sulla mostruosa idea che i francesi fossero responsabili della disfatta! Ho detto chiaramente agli americani: «Voi siete responsabili per la sconfitta. Eravamo quaranta milioni di contadini contro ottanta milioni di industriali. Un uomo contro due uomini, un tornio contro cinque. Anche se un Daladier avesse ridotto il popolo francese alla schiavitù, non avrebbe potuto pretendere che un uomo lavorasse cento ore al giorno. Un giorno ha solo ventiquattro ore. Qualunque fosse stata la gestione della Francia, la corsa al riarmo avrebbe comunque prodotto un uomo contro due e un cannone contro cinque -eravamo pronti a morire. Perché la nostra morte fosse efficace, avevamo bisogno dei vostri quattro carri armati, dei vostri quattro cannoni e dei vostri quattro aerei che ci mancavano. Vi aspettavate che vi salvassimo dalla minaccia nazista, ma nel frattempo producevate Packard e frigoriferi per il week-end. Questa è la sola causa della nostra sconfitta. Ma questa sconfitta ha comunque salvato il mondo. L’accettazione della nostra sconfitta è stato l’inizio della rivolta contro il nazismo». Ho detto loro (quando ancora non erano in guerra): «L’albero della resistenza crescerà un giorno dal nostro sacrificio come da un seme!». (...). «Noi stessi siamo parzialmente responsabili per la loro sconfitta». Se i francesi in America avessero seguito il mio sentiero un po’ di più invece di spiegare sempre tutto a partire dalle tradizioni della Francia, ora le nostre relazioni con gli Stati Uniti sarebbero differenti da come lo sono oggi. Su ciò, nessuno mi farà cambiare idea.
«Noi siamo responsabili». E non sto parlando della sconfitta, ma del fenomeno fascista e nazista. Ho scritto (come è possibile che ciò non sia evidente, ho tentato in tutti di modi di farmi capire!): «La civiltà cristiana occidentale è responsabile per la minaccia che incombe su di essa. Cosa ha fatto negli ultimi ottant’anni per tenere vivi i propri princìpi nel cuore degli uomini? L’unica etica proposta è stata «prospera e accumula ricchezze» di Guizot o l’idea americana di comfort. Dopo il 1918 cosa c’era a esaltare il cuore degli uomini? La mia generazione ha giocato in borsa, discusso di auto e dei loro rispettivi pregi nei bar, ha stretto sordidi affari commerciali. Quanti pochi hanno esperito una vita di dedizione monastica, come ho fatto io con l’Aéropostale. Quanti invece sono annegati nelle lugubri paludi delle carte e del pernod, o del bridge o dei cocktail party, in base alla propria classe sociale.
Per vent’anni della mia vita ho disprezzato i lavori di Bernstein (che grande patriota) e di Louis Verneuil, ma soprattutto l’isolazionismo egoista del mondo, dove tutti guardano solo al proprio interesse. Ho scritto Terra degli uomini per raccontare appassionatamente agli uomini che erano tutti abitanti dello stesso pianeta, passeggeri della stessa nave. In quale modo i grassi prelati (oggi collaborazionisti) o i magistrati supremi, sono depositari della civiltà cristiana occidentale, del suo credo universale? Gli uomini provavano una sete che niente al mondo avrebbe potuto soddisfare. Non vede che la mia profonda amicizia per lei deriva dalla scoperta che dal nostro primo incontro lei era un uomo come me, con le stesse urgenze del cuore? Anche lei era assetato, e misteriosamente la nostra fede fu placata solo nel deserto, o nelle ore difficili durante i voli di notte. Nessuno di noi riusciva a leggere Le Canard Enchame o il Paris-Soir. Non sopportavo Luis Vernueil.
Io amo coloro che placano la mia sete. Disprezzo quello che Louis Philippe, Guizot e il sig. Hoover hanno fatto degli uomini. È la questione della perenne opposizione tra popoli nomadi e sedentari. La civiltà deve essere continuamente salvata.
In Paraguay, come lei sa, la foresta pluviale si fa sentire attraverso ogni crepa del selciato della capitale anche se non vi è più che un filo d’erba. La foresta pluviale deve essere scacciata indietro, continuamente. In che cosa il suo amico (che penso di aver capito) poteva trovare soddisfazione nell’etica preguerra? E se, come noi, sentiva una sete inestinguibile, perché in nome di Dio egli si indigna quando condanno quegli anni per aver trascurato ogni valore spirituale? Quando dico che ognuno di noi è responsabile per tutto ciò, io sono nella tradizione agostiniana. Lo stesso per il suo amico mentre la combatte. Egli incarna il contadino bretone e il postino in guerra. Lui è il braccio che combatte e attraverso di lui il paese è in guerra -attraverso il postino anche il tuo amico serve la comunità. Il tutto non può essere diviso in parti separate (...) La fiducia nell’ azione. La base stessa del sentimento dell’essere. Quegli ammuffiti burocrati mi provocano un sorriso indulgente, perché io ho combattuto ogni settimana, da solo, in un p-38 Lightning nonostante i miei quarantaquattro anni, perché solo otto giorni fa ero inseguito da uno sciame di caccia nemici durante un’avaria al motore sopra Annecy. E ne ne frego dei burocrati.
Lettera a Pierre Dalloz Luglio 30 o 31, 1944, Settore postale 99.027 Caro Dalloz, Come rimpiango le sue quattro righe! È senza dubbio l’unico uomo che riconosca come tale su questo continente. Mi sarebbe piaciuto sapere ciò che pensava di questo tempo presente.
Io sono disperato. Immagino lei pensi che io avessi ragione da tutti i punti di vista, a tutti i livelli. Io combatto con quanto più entusiasmo posso. Devo essere il decano dei piloti di guerra. Il normale limite di età per il tipo di aereo da combattimento
che piloto è di trent’anni. L’altro giorno ho avuto un’avaria a un motore mentre sorvolavo Annecy, a 10.000 metri d’altitudine, e proprio nel preciso momento in cui compivo quarantaquattro anni! Mentre stavo attraversando le Alpi a passo di lumaca alla mercè dei caccia tedeschi, ho sorriso a me stesso al pensiero di quei superpatrioti che hanno proibito il mio libro in Nord Africa. Com’è strana la vita.
Da quando sono rientrato in squadriglia ho sperimentato di tutto (questo ritorno è un miracolo): un’avaria, uno svenimento per mancanza di ossigeno, un inseguimento di caccia nemici e anche un incendio a bordo durante il volo. Non mi sento troppo avaro, ma un buon artigiano.
È questa la mia unica soddisfazione oltre a quella di essere da solo, a bordo di un aereo solitario, a scattare foto sulla Francia. Anche questo è strano. Qui sono ben lontano dall’odio persuasivo, ma nonostante il cameratismo con gli altri della squadriglia, c’è un senso di umana fragilità. Non ho nessuno, nessuno con cui parlare. Almeno c’è qualcuno con cui condividere la vita. Ma che deserto spirituale! Se vengo abbattuto, non voglio rimpiangere nulla. Il termitaio futuro mi atterrisce. Io odio le loro virtù da robot. Preferisco essere un giardiniere.
L’abbraccio.