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 2014  agosto 10 Domenica calendario

«SARÀ UNA LUNGA CAMPAGNA». IRAQ, TEST PER LA DOTTRINA OBAMA

«Ci vorrà tempo, non è una questione di settimane. Noi cercheremo di evitare genocidi, difenderemo gli americani che sono in Kurdistan e l’ambasciata di Bagdad. Non vogliamo certo che i ribelli dell’Isis trionfino, ma non diventeremo l’Air Force dell’Iraq: le armi possono servire in alcune situazioni estreme ma non costruisci con quelle una società e nuovi equilibri politici. La soluzione dei problemi dell’Iraq deve venire dagli iracheni».
In un’intervista a Tom Friedman del New York Times e poi parlando brevemente sul prato della Casa Bianca, Barack Obama spiega la sua scelta di tornare ad agire militarmente in Iraq, sia pure solo dal cielo, tre anni dopo il ritiro delle truppe Usa. E prova a tracciare un quadro globale delle sfide internazionali che l’America si trova ad affrontare soprattutto in Medio Oriente, Nord Africa e Asia Centrale. A chi lo accusa di non avere una strategia coerente, risponde, poi, che l’America non può plasmare il mondo. Soprattutto questo mondo sempre più multipolare e frammentato nel quale, nota, la Russia potrebbe invadere l’Ucraina nonostante tutte le condanne internazionali. Cosa che renderebbe i processi diplomatici assai più difficili.
Il contrasto tra le immagini della famiglia Obama che, dopo la conferenza stampa «di guerra» del presidente, attraversa un prato verdissimo e si imbarca sul Marine One per andare a trascorrere una vacanza nell’isola di Martha’s Vineyard e i filmati pieni di paura e disperazione che arrivano dalle zone desertiche dell’Iraq assediate dall’Isis e bruciate dal sole, rendono bene l’idea di questo «new normal» di un mondo nel quale, tramontato da decenni il bipolarismo Usa-Urss e con l’America che non può e non vuole essere il gendarme del mondo, i conflitti si moltiplicano senza più controllo. Obama confessa candidamente a Friedman di non avere soluzioni, ma solo una ricetta: la cooperazione tra le diverse etnie — nel caso dell’Iraq la maggioranza sciita con le minoranze sunnite e curde — e le diverse forze politiche, smettendola di seguire la logica dello scontro all’ultimo sangue dopo il quale chi vince prende tutto. Una miopia politica che provoca inevitabilmente nuove ribellioni, sanguinosi conflitti e una pericolosa moltiplicazione delle situazioni di instabilità. Ma il presidente è il primo a sapere che non è facile cambiare registro in luoghi dove le rivalità etniche e religiose hanno radici profonde, soprattutto quando una situazione non molto diversa la si trova perfino nella civilissima Washington del Congresso paralizzato dalla contrapposizione frontale tra repubblicani e democratici.
Il leader democratico non sembra farsi molte illusioni nemmeno sulla possibilità di risolvere il conflitto israelo-palestinese: a Friedman che gli chiede se gli Usa premeranno per un accordo basato su maggiori concessioni territoriali da parte dello Stato ebraico in cambio di maggiore sicurezza, il presidente risponde notando che il premier israeliano Netanyahu «è molto più popolare di me nei sondaggi e il suo gradimento è molto cresciuto dopo la guerra a Gaza». Difficile per un politico avere la lungimiranza di guardare lontano sfidando una maggioranza popolare che, pensando solo all’oggi, non vuole fare concessioni. Che, invece, sarebbero necessarie. Ma, conclude il presidente, paradossalmente Netanyahu è troppo forte e Abu Mazen troppo debole tra i palestinesi per arrivare ad accordi coraggiosi come quelli siglati qualche decennio fa da Sadat, Begin e Rabin. Amaro e autocritico anche sulla Libia: «Resto convinto che sia stato giusto rovesciare Gheddafi. Non fossimo intervenuti, avremmo avuto una vera guerra civile come in Siria. Ma abbiamo sbagliato a non occuparci a sufficienza della costruzione del dopo: questo è il nostro principale rimpianto». Il presidente è, invece, molto determinato nel difendere dalle accuse dei repubblicani la scelta di non armare in Siria i ribelli filo-occidentali: «La possibilità di sconfiggere uno Stato bene armato e spalleggiato da Russia, Iran ed hezbollah dando armi leggere, o anche sofisticate, a un’opposizione fatta di medici, farmacisti e contadini, non è mai esistita. Ancora oggi non troviamo un numero significativo di ribelli da addestrare».
Quanto all’Iraq, Obama spiega di non essere intervenuto militarmente a giugno perché voleva convincere Al Maliki a cambiare rotta creando un governo di unità nazionale, anziché illudersi di poter mettere a tacere le minoranze con le bombe. L’Air Force non poteva diventare l’aviazione sciita. Anche oggi, pur attaccando duramente l’Isis, Obama riconosce che sarà impossibile sconfiggere i ribelli se il governo di Bagdad non riconoscerà i diritti dei sunniti, oltre che quelli dei curdi. Prima di partire per le vacanze il presidente spiega che questa crisi è destinata a durare mesi, rifiuta di porre un limite temporale per gli interventi americani dal cielo, chiede più cooperazione internazionale per gli interventi umanitari e annuncia di aver già ottenuto, in questo campo, un impegno di collaborazione da Gran Bretagna e Francia.