Piero Ostellino, Corriere della Sera 9/8/2014, 9 agosto 2014
IL SENATO, LE RIFORME E L’EQUILIBRIO DEI POTERI
Chi accusa il Movimento 5 stelle di non essere propriamente l’Opposizione (britannica) di Sua Maestà non ha tutti i torti. Ma non può neppure negare che l’opposizione grillina a Renzi non abbia un fondamento di verità. L’articolo 10 di riforma dell’articolo 72 della Costituzione dice che «il governo può chiedere alla Camera dei deputati di deliberare che un disegno di legge sia iscritto con priorità all’ordine del giorno e sottoposto alla votazione entro 60 giorni dalla richiesta, ovvero entro un termine inferiore determinato in base al regolamento tenuto conto della complessità della materia. Decorso il termine il testo proposto dal governo, su sua richiesta, è posto in votazione, senza modifiche, articolo per articolo con votazione finale» (Senato della Repubblica, atto n° 1429, punto 1, lettera b).
È evidente che, così concepito, questo aspetto della cosiddetta riforma del Senato si propone di evitare gli ingorghi prodotti dal numero eccessivo di emendamenti che avevano caratterizzato, e ritardato, finora, l’approvazione delle leggi da parte del Parlamento e di accelerarne i lavori. Se esso, però, non è anche un maldestro tentativo di esautoramento del Parlamento non so in quale altro modo lo si dovrebbe chiamare. Del resto, pare in sintonia sia con la vocazione monopolistica «padronale» di Berlusconi, sia con la disinvolta e cinica superficialità del giovane fiorentino — prigioniero delle proprie stesse chiacchiere — che fa da battistrada al totalitarismo latente di un partito, il Pd, che non ha ripensato criticamente il proprio passato comunista. L’articolo conferisce all’esecutivo nuovi e più poteri, sottraendoli al legislativo, che fa da contrappeso al governo. La nostra democrazia è su un crinale; ancora un passo e precipita nel totalitarismo.
L’analogia con il 1922, per quanto forzata, non dovrebbe essere sottovalutata. Avevo scritto che Matteo Renzi è un innocuo chiacchierone. Spero di essermi sbagliato. Ma è troppo pieno di sé e — poiché glielo fanno credere — tanto convinto del proprio salvifico destino, per essere un «incidente di percorso». A me pare, perciò, che Giorgio Napolitano rischi di assomigliare a Facta e di ripetere l’errore di Vittorio Emanuele III — che si era opposto allo stato d’assedio contro la marcia su Roma perché aveva creduto a chi, anche sul versante liberale, l’aveva ritenuta un modo di rimettere ordine a un sistema politico indebolito — e che, una volta che avesse assolto il proprio compito, sarebbe stato facile ricondurre Mussolini nell’alveo della democrazia.
Non pretendo neppure di rifare il verso a Giovanni Amendola e a Piero Gobetti, che si erano esposti ai pericoli del caso. Faccio il mio mestiere di giornalista, fra molti che non lo fanno, pensando, sulla scorta della funzione che Tocqueville assegna al giornalismo in una democrazia liberale, che non sia sbagliato gridare «al lupo autoritario», se le circostanze lo suggeriscano e ancora lo si possa fare. Credo lo si debba fare soprattutto quando si è ancora in tempo. Perché, prima o poi, il lupo arriva e, di solito, non c’è più tempo per rimediare...