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 2014  agosto 09 Sabato calendario

ROSSINI SECONDO MARTONE

[Intervista a Mario Martone] –
PESARO
Coraggioso Mario Martone appassionato di sfide! Come girare un film su un poeta depresso e infelice, alto 1,41 e con due gobbe e, aspettando che questo suo Il giovane favoloso sia finalmente proiettato, alla prossima Mostra di Venezia, accettare la regia di Aureliano in Palmira: che messa in scena per la prima volta alla Scala di Milano nel dicembre 1813, si rivelò un disastro. Lo stesso Rossini, ventunenne scrisse serafico alla madre “Ho fatto fiasco!”, mentre critica e pubblico giudicarono l’opera noiosissima. E spiace dirlo, anche qui a Pesaro, all’antegenerale, pure un paio dei pochi privilegiati ammessi (la prima, esaurita, sarà il 12 agosto, il festival però apre domani con Armida allestita da Ronconi), ammisero colpi di sonno.
Martone come reagisce a un fiasco? E come mai ha accettato di allestire un’opera abbandonata dal 1831, ripresa incompleta nel 1980 al Politeama di Genova, riproposta a Martina Franca nel 2011; e che viene data solo adesso al Rossini Opera Festival.
«Non sono come Rossini, agli insuccessi reagisco male, mi dispiaccio molto. Quanto all’ Aureliano, la sua rarità mi ha incuriosito. Poi a Rossini e al Festival di Pesaro non si può dire di no. Le condizioni di lavoro sono straordinarie».
E’ stato Rossini ad avvicinarla a Leopardi, due geni quasi coetanei e precoci, dalle vite così diverse?
«Certo molto diverse, eppure avevano ambedue una doppia natura, legata al passato ma ansiosa di futuro; le loro esistenze erano simili nella profondità dei sentimenti: Rossini, a soli 37 anni smise di comporre opere e si lasciò andare alla depressione, che aveva funestato tutta la vita di Leopardi, morto a 39 anni. Giacomo non conosceva Rossini, ma lo amava molto. Al teatro Argentina di Roma, assistette a La donna del lago e nel febbraio del 1823 scrisse all’amato fratello Carlo: “Eseguita da voci sorprendenti, è cosa stupenda, e potrei pianger ancor io, se il dono delle lacrime non mi fosse stato sospeso, giacchè mi avvedo pure di non averlo perduto affatto”».
Però ha proseguito, “E’ intollerabile e mortale la lunghezza dello spettacolo, che dura 6 ore e qui non s’usa di uscire dal palco proprio”. Non sarà troppo lunga anche questa curatissima edizione di Aureliano in Palmira ?
«La lunghezza è rossiniana e la musica è incantevole, anche se buona parte la conosciamo già: perché poi Rossini usò la sinfonia e un paio di melodie e cabalette, per Il barbiere di Siviglia e altre opere successive».
Quanto Rossini c’è nel suo film Il giovane favoloso ?
«Ci sono composizioni rossiniane che mi ha dato il Rossini Opera Festival, tra cui il prezioso Andantino di una delle sonate a 4 che Rossini compose a 12 anni. Alla fine Leopardi a Napoli, va al San Carlo e gli facciamo vedere una scena della Matilde di Shabran di cui ho curato la regia. Nelle Operette morali di Leopardi che abbiamo messo in scena qualche anno fa la musica è tutta di Rossini. In Noi credevamo c’è una strana coincidenza, cioè ho inserito la sinfonia del Barbiere, che prima era in Elisabetta regina d’Inghilterra e, non lo sapevo, ancora prima in Aureliano».
A proposito di Arsace, Rossini scrisse il ruolo per l’ultimo celebre castrato, Velluti. Il suo Arsace, la mezzosoprano Lena Belkina, non le sembra troppo fragile vicino alla matronale Zenobia di Jessica Pratt?
«Mi piaceva l’dea dell’amore smisurato di una donna adulta per un ragazzo disposto a morire pur di non rinunciare a lei. Ho puntato in tutta l’opera su una dimensione soprattutto femminile, protagonista un popolo di donne che riesce a resistere all’odioso imperatore romano Aureliano (Michael Spyres), che non vuole solo vincere, ma anche sedurre e distruggere l’identità del nemico vinto».
Alla fine ci riesce, perché perdonando Zenobia e Arsace che erano disposti a morire per non essere separati, questi felicissimi giurano fedeltà a Roma.
«Non mi piaceva per niente. E’ un falso storico perché la regina Zenobia fu trascinata a Roma dietro il carro trionfale di Aureliano, soffocata dalle gemme e dalle catene d’oro e da un collare che doveva essere sostenuto da una guardia persiana. Di sicuro non cercò il perdono. Palmira era un regno nel mezzo del deserto siriano e questo finale gioioso cancellava la chiave politica che volevo dare all’opera e che è attuale: per questo sulla scena finale appare una citazione di Edward Said: “L’Europa è forte e ben strutturata, l’Asia è lontana e sconfitta”. E io ho aggiunto: “Quel confine è segnato con sangue nei deserti mediorientali”».
Tuttavia lei è riuscito a sfuggire alla facile attualizzazione. Lei allontana la realtà mettendo sul palcoscenico in mezzo alle battaglie e agli amori un fortepiano e un contrabbasso con i loro musicisti. Ma la ricrea quando Arsace in fuga si ritrova nei campi tra i pastori e quattro geniali caprette.
«Grandi attrici: prima le ho abituate nella stalla ad ascoltare la musica, poi a muoversi disinvolte sul palcoscenico seguendo un pastore-comparsa con una sacca piena d’erba».
Natalia Aspesi, la Repubblica 9/8/2014