Jaime D’alessandro, la Repubblica 9/8/2014, 9 agosto 2014
“IL FUTURO NON MI FA PAURA”
[Intervista a Oliviero Toscani] –
Settantadue anni senza paura e senza peli sulla lingua.
A sentir parlare Oliviero Toscani, il grande fotografo milanese, la rivoluzione tecnologica che sta travolgendo tutto e tutti non ha nulla di spaventoso. Anzi. Bisogna cavalcarla, sfruttarla, usarla per guardare il mondo. E se c’è chi la teme è solo perché è un mediocre. «Il problema casomai è che non avevamo gli smartphone al tempo di Cristo», spiega. «Altrimenti scommetto che i Vangeli li avrebbero scritti in altro modo. Iniziando dai miracoli». Con voce pacata butta sul tavolo interpretazioni al vetriolo come se fossero commenti innocui sulla fine delle mezze stagioni.
Nega ogni dignità alla reticenza nei confronti dell’innovazione, nega perfino l’esistenza della serialità in quest’éra sempre più digitale. Perché ogni foto è diversa dall’altra e ogni algoritmo è scritto da qualcuno e quindi riflette la sua individualità e la sua idea. L’importante è non aver timore. Fa effetto sentirlo da uno della sua età. Soprattutto considerando che è proprio il mestiere di Toscani quello messo più a rischio dalla tecnologia. Secondo una stima di Yahoo!
entro la fine dell’anno verranno scattate 880 miliardi di foto. Erano 375 miliardi nel 2011 e 85 milioni nel 2000. «Fantastico», commenta lui. «Un libro con 880 miliardi di foto. Me lo comprerei subito. Finalmente cominciamo ad avere una documentazione seria sulla condizione umana».
Registi come Wim Wenders pensano che le immagini sono talmente tante da consumare letteralmente lo spazio vitale dell’immaginazione. Musicisti come Keith Jarrett si infuriano con il pubblico perché guarda il concerto attraverso lo schermo del telefono. Università come quella di Wellington in Nuova Zelanda sostengono che continuando a fotografare così tanto comprometteremo la nostra capacità di ricordare.
«Sono tutte stupidaggini», taglia corto Toscani. «Se avessero ripreso i massacri delle Crociate o della Campagna di Russia di Napoleone con il telefono la nostra percezione di quegli eventi sarebbe stata molto diversa. Da quando esiste la fotografia esiste la storia così come la conosciamo ora. Ci siamo resi conto delle violenze dell’uomo sull’uomo grazie alle immagini. Crediamo attraverso le foto: la verità è un’immagine o un video. Perfino la realtà al confronto è meno reale». “Profondamente laico”, come lui stesso ama definirsi, ha la stessa età dei Beatles e dei Rolling Stones, di Bob Dylan e di Muhammad Ali. Figlio del primo fotoreporter del Corriere della Sera, Fedele Toscani, ha iniziato pubblicando sui giornali di moda negli anni Sessanta e tessendo rapporti con testate di tutto il mondo. Ha portato Monica Bellucci a Parigi, fotografato Naomi Campbell quando ancora la conoscevano in pochi. Ma tutti lo ricordano per le campagne irriverenti di United Colors of Benetton a partire dal 1982, anche se secondo Toscani non è stato uno dei lavori più importanti, solo quello mediaticamente più noto. Sempre in movimento ha vissuto a New York e a Parigi e ancora oggi se non prende almeno un aereo la settimana pensa che ci sia qualcosa che non va. Ha avuto tre compagne, sei figli, dodici nipoti. E alcuni di questi sono più gradi dei suoi figli più piccoli. «Ho fatto impazzire tanta gente attorno a me stando sempre così in movimento», ammette. «Del resto o si è occupati a vivere o si è occupati ad aspettare di morire». E lui ha sempre percorso la prima strada. Meglio: «ho sempre scelto quello che preferivo, fin dall’inizio, perché non ho mai temuto il morir di fame per assenza di committenti. Ho vissuto tutto quello che potevo vivere e ho inseguito la libertà attraverso il mio lavoro. Soprattutto ho smesso di avere complessi: quello di essere un uomo “piccolo”, di non aver talento, di non esser capace o di non esser abbastanza intelligente. La libertà è questo: scrollarsi di dosso dubbi e limiti. E lo faccio attraverso il lavoro e attraverso i miei progetti».
L’ultimo, iniziato nel 2007, è sulla razza umana. Si chiama proprio così, “Razza Umana”. Toscani è andato in giro fotografando le persone, di ogni razza, religione, colore ed estrazione sociale. Circa 50 mila ad oggi. L’idea è nata quando una donna musulmana, alcuni anni fa, non volle farsi fotografare perché temeva che l’anima le venisse rubata. «Quella frase mi è rimasta nella testa. Mi sono chiesto se era davvero possibile “rubare” l’anima di qualcuno con una fotocamera. Ed è possibile in effetti. Così ho deciso di fare un grande catalogo dell’umanità, della sua anima o spirito che dir si voglia». Come? Dieci scatti in sequenza di ogni faccia, come fototessere. «E a volte, in una di queste, riesco a catturare quella cosa intangibile che ci portiamo dentro».
Il mestiere del fotografo non sarebbe in pericolo quindi, a patto di essere dei fotografi veri e di non scambiare il mezzo per il fine. «Le note sono sette per chiunque, ma Mozart resta Mozart», continua Oliviero Toscani. «Lo strumento non c’entra. Se io lascio libero di correre per le strade di Milano un asino con una macchina fotografica attaccata alle orecchie che scatta ogni tre secondi, avrò una serie di immagini incredibili. Le espressioni delle persone, il traffico che va in tilt, scorci strepitosi della città. Sono foto fatte da chi? Da un asino. Ecco: fare il fotografo oggi non è scattare ma decidere di attaccare la macchina alle orecchie di un asino». Ci pen- sa un po’. Poi aggiunge: «Sto iniziando a usare uno smartphone Lumia per fotografare. È incredibile, mi chiedo cosa avrebbe fatto Orson Welles con due o tre apparecchi del genere. Forse potrei lasciare a casa la mia Canon. A meno che la Canon non faccia finalmente una reflex con il telefono dentro. Se lo facessero sarei felice. Chissà cosa aspettano... Sa qual è il problema? Il problema è che la tecnologia è vecchia. Quella che usiamo oggi è stata progettata ieri per i bisogni che avevamo e non per quelli che abbiamo. Io ad esempio vorrei poter scattare direttamente con i miei occhi e non capisco perché non posso ancora farlo». Settantadue anni senza paura, come dicevamo. Soprattutto del futuro.
Jaime D’alessandro, la Repubblica 9/8/2014