Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  agosto 09 Sabato calendario

LE RIFORME SENZA QUALITÀ FANNO RISORGERE LA TROIKA

In soli tre giorni, Matteo Renzi ha ottenuto l’approvazione di tre riforme: quella del Senato, la riforma della Pubblica amministrazione e il “decreto competitività”. Prima, era riuscito a portare a casa i famosi 80 euro e il “decreto Ambiente”. Dal suo punto di vista, quindi, il premier può cantare vittoria. Eppure, qualcosa non torna. Solo due giorni fa, il presidente della Bce, l’italiano Mario Draghi, ha bacchettato il governo per lo “scarso impegno” nel fare le riforme strutturali e ha invitato, non solo l’Italia ma tutti i paesi dell’Eurozona, a “cedere sovranità” all’Unione europea. Renzi sembra quindi aver scontentato quell’establishment europeo che ha sempre tenuto l’Italia nel mirino. Allo stesso tempo, però, ha realizzato riforme incolori, di scarso spessore e scarsi risvolti concreti che sembrano, come l’uomo di Musil, senza qualità.
ACT SENZA JOBS L’emblema è rappresentata dalla riforma del lavoro. Renzi si presentò alle primarie del Pd come l’alfiere di una riscrittura del codice del lavoro, riducendo a 60-80 tutte le norme in un linguaggio “comprensibili anche in inglese” e con un’idea-base chiara: realizzare un contratto unico a tutele crescenti per spezzare la precarietà e aggirare il nodo perenne dell’articolo 18. A questo contratto sarebbe dovuto essere affiancato un reddito di garanzia per chi fosse rimasto senza lavoro. Una simile proposta, volenti o nolenti, avrebbe modificato la vita reale delle persone. Forse, per la sua potenzialità contro l’articolo 18, la riforma sarebbe stata apprezzata anche in Europa.
Invece, il governo Renzi ha proceduto con una modalità da prima Repubblica. Ha scorporato la riforma in due: un decreto-legge con misure di aumento della flessibilità e una legge-delega, dai tempi molto lunghi, anche per effetto dei numerosi decreti attuativi. Il Jobs Act, che ha rappresentato per alcune settimane, il volto buono del governo Renzi, si è inabissato, sconosciuto ai più.
PUBBLICO IMPIEGO Un metodo analogo è stato seguito con la riforma della Pubblica amministrazione. Anche questa, scorporata in un decreto, da approvare di corsa, e poi in una legge-delega che ieri il Senato ha calendarizzato per il 3 settembre. Renzi ha preferito incassare provvedimenti in parte urgenti, come l’Autorità anti corruzione, da far presiedere al magistrato Raffaele Cantone, la speranza di un ricambio generazionale con la flessibilità del turn-over, la modifica della mobilità o il dimezzamento dei distacchi sindacali. Ha però lasciato nel futuro misure come la riforma della dirigenza pubblica, la riforma del part-time, la semplificazione delle leggi, la modifica della disciplina del lavoro per i pubblico impiego. Senza particolari meriti da esibire a Bruxelles.
COMPETITIVITÀ Con il “decreto competitività” si è invece unito il peggio della prima Repubblica – il decretone onnicomprensivo – con quella mistica imprenditoriale da “governo del fare” inaugurata da Berlusconi e ben interpretata anche dal governo Monti (ricordate Passera?). In quel decreto, approvato definitivamente ieri, c’è di tutto: dalla bolletta energetica all’Opa, dal prestito ponte all’Ilva alle deroghe per gli scarichi a mare, dal bollo per il soccorso alpino ai roghi per le potature. Più che una riforma sembra il manuale del buon commercialista.
SBLOCCA LA TRIVELLA Qualcosa di simile sta per essere realizzato con il “decreto Sblocca-Italia”, una serie di norme, assicura Renzi, per “uscire dalla sindrome del No” e costruire trivelle, grandi opere, e autostrade senza la paura di “tre, quattro comitatini”. Un piano già avviato, nel 2001, da Silvio Berlusconi (che all’epoca aveva come simbolo il Ponte sullo Stretto) e che non portò particolare fortuna.
La “riforma” più concreta, dunque, resta quella degli 80 euro, “pochi, maledetti e subito” messi nelle tasche di circa 10 milioni di italiani. I dati sul Pil e la recessione conclamata, però, dicono che non basta e che mentre la “casa-Italia” va a fuoco, non ci si può concentrare sulle tende alle finestre o sulla risistemazione degli arredi.
LA CESSIONE DI SOVRANITÀ La fragilità delle riforme è la condizione che ha permesso l’affondo di Draghi. Le intenzioni della Bce non coincidono con le speranze di tanti cittadini ma gli errori del premier hanno consentito di rilanciare l’ipotesi della “cessione di sovranità”. Nella concezione di Draghi si tratterebbe di prendere a modello il fiscal compact, il Patto di bilancio europeo che prevede il pareggio di bilancio e il rientro dal debito pubblico a tappe forzate. Una simile soluzione, però, dovrebbe avere il via libera di tutti i paesi dell’Eurozona. L’altra ipotesi di “cessione di sovranità” è più brutale e diretta: accedere a un prestito sovranazionale firmando un “Memorandum” in cui rispettare una serie di impegni prestabiliti e vincolanti. Una strada seguita dalla Grecia con la Troika che si è messa gli “strozzini” in casa. Però viene auspicata da molti commentatori, in primis dalla Repubblica di Eugenio Scalfari. Ed è meglio che Renzi non la sottovaluti.
Salvatore Cannavò, il Fatto Quotidiano 9/8/2014