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 2014  agosto 09 Sabato calendario

LA NUOVA GUERRA DI OBAMA CONTRO IL CALIFFO

Dove un tempo bombardavamo Saddam, bersaglio costante dell’Occidente dal 1991 al 2003, oggi bombardiamo il califfo Baghdadi: ma è un Barack Obama riluttante quello che ha deciso i raid aerei. E gli esiti non sono scontati. Obama era arrivato alla Casa Bianca con la promessa di chiudere la guerra sbagliata di George W. Bush.
Aveva ordinato il ritiro delle truppe nel 2011 e ora teme di essere di nuovo coinvolto nel vortice di un conflitto. Ricordiamo che un’estate fa, quando la guerra contro Bashar Assad sembrava ineluttabile, si fece convincere a non intervenire dalla mediazione di Putin. Con il dilagare del Califfato la disgregazione irachena minaccia di inabissare quel che resta dello stato centrale iracheno, di intaccare le frontiere della Turchia, membro storico della Nato, e travolgere i confini del Kurdistan con capitale Erbil, alleata dell’Occidente e di Israele: più che la protezione dei cristiani e delle altre minoranze, abbandonate da mesi se non da anni alla loro sorte umiliante, sono questi i motivi strategici dell’intervento contro lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (Isil) guidato da Abu Bakr al Baghdadi.
La Turchia, dove ci sono le basi aeree dell’Alleanza Atlantica e sono schierati i missili Patriot contro la Siria di Assad, ormai confina per centinaia di chilometri con il Califfato – esteso tra Siria e Iraq quanto il Belgio – che ha dimostrato finora capacità militari e di propaganda assai superiori a quelle accreditate dai servizi di intelligence. Un altro errore di valutazione da meditare: l’Isil si è impadronito di importanti risorse energetiche e controllando alcune dighe può minacciare a Sud Baghdad mentre a Nord i peshmerga curdi sono stati costretti ad abbandonare città rilevanti con qualche cedimento quasi inspiegabile, come nella roccaforte cristiana di Qaraqosh dove si sono ritirati senza combattere.
L’intervento americano ai confini più sensibili della Turchia e in Kurdistan dovrebbe indurre a qualche riflessione sui paradossi della politica estera di Ankara e dell’Occidente. Alla vigilia delle elezioni presidenziali di domani, le prime con voto popolare diretto, il premier Tayyep Erdogan è strafavorito ma la sua politica estera ha aperto la strada ai jihadisti prima in Siria e poi in Iraq, con l’acquiescenza delle potenze occidentali e la compartecipazione attiva delle monarchie arabe del Golfo che avevano l’obiettivo di far fuori Bashar Assad, amico storico dell’Iran, e di mettere a segno la rivincita dei sunniti, dopo la caduta di Saddam Hussein, sul governo sciita di Baghdad.
Pur di stringere all’angolo gli ayatollah di Teheran e i loro alleati, alauiti siriani e Hezbollah libanesi, è stato lasciato campo libero ai jihadisti che hanno sopraffatto i gruppi armati più moderati. Per contrastare in Medio Oriente e nel Golfo l’influenza della repubblica islamica iraniana - per altro sotto sanzioni e ingaggiata nel negoziato sul nucleare a Vienna e Ginevra - si sono schiuse le porte ai peggiori integralisti che impongono una versione feroce e intollerante del Corano.
Dove si fermerà la quasi inarrestabile ascesa dello Stato Islamico, emanazione autonoma di Al Qaeda, che dopo avere conquistato metà della Siria avanza nel Nord Iraq e mette in fuga decine di migliaia di "infedeli" terrorizzati dalle atrocità dei combattenti di Al Baghdadi? Dopo il rapimento del console turco di Mosul e di una quarantina di dipendenti della legazione, la domanda viene rivolta al premier islamico Erdogan accusato dall’opposizione di avere appoggiato i jihadisti in Siria in nome di un fronte sunnita contro Assad. Ankara ormai ha l’Isil come nuovo inquietante "vicino" e il 10% dei circa 30mila jihadisti del Califfato sarebbero turchi.
I responsabili di questo disastroso risultato sono lo stesso Erdogan, il ministro degli Esteri Ahmet Davutoglu, indicato come possibile nuovo premier, e il capo dei servizi segreti del Mit, Hakan Fidan, l’architetto dell’opaca politica turca in Siria, che ha concesso il libero passaggio della frontiera ai jihadisti per combattere non solo Assad ma anche le forze curdo-siriane.
L’effetto boomerang delle iniziative di Erdogan, lanciato verso una repubblica presidenziale, può essere devastante. Se è vero che è riuscito a stringere rapporti politici ed economici (petrolio) sempre più stretti con il Kurdistan iracheno – legami utili anche a regolare la questione curda interna alla Turchia – ha messo in gioco la sicurezza del Paese e dell’area.
L’avanzata dei jihadisti rischia di provocare l’arrivo di centinaia di migliaia di nuovi profughi dall’Iraq in un Paese che ospita, con sempre minore senso di sopportazione e tolleranza, oltre un milione di rifugiati siriani. Ma c’è anche un fattore di destabilizzazione interna. L’Isil, dopo l’Iraq, la Siria, il Libano e le cellule in Palestina e Giordania, si sta impiantando anche in Turchia: per la fine del Ramadan a Istanbul una folla indisturbata di integralisti ha partecipato a una preghiera di massa invocando «l’aiuto di Allah per coloro che combattono la jihad affinché colpiscano accuratamente i loro obiettivi». Con la saldatura tra guerra siriana e irachena, accompagnata dallo sgretolamento di due stati, forse Erdogan sperava di diventare il moderno califfo della regione: una partita a poker, ma senza rischi calcolati, per la Turchia, per il Medio Oriente e anche per noi.
Alberto Negri, Il Sole 24 Ore 9/8/2014