Teodoro Chiarelli, La Stampa 8/8/2014, 8 agosto 2014
“A TRIPOLI SPARANO SOTTO CASA NOSTRA MA IO VOGLIO TORNARE A VIVERE LÀ”
Quando finalmente si abbassa il pesante portellone del C130J dell’Aeronautica Militare, è un’umanità fatta di donne, bambini e uomini dai volti tirati e stanchi quella che si riversa sulla pista dell’aeroporto di Pisa. Sorrisi e abbracci con i parenti, un’aria vagamente sorpresa, gli ultimi italiani di Libia fanno il loro rientro a casa. Con cinque voli in quindici giorni, gli ultimi due ieri (120 persone, 60 italiani) il ministero degli Esteri, l’unità di crisi della Farnesina e la 46a Brigata aerea ne hanno rimpatriati oltre 150. Più altrettanti stranieri, soprattutto europei. Un impegno non indifferente, frutto di operazioni complesse e rischiose, in un Paese ormai sprofondato nel caos, dove l’unica ambasciata occidentale (e non solo) aperta rimane quella italiana. E bisognerà pur darne qualche merito all’ambasciatore Giuseppe Buccino, ancora al suo posto di fronte a tanti colleghi che hanno fatto fagotto.
I primi a sbarcare, alle 15.15, sono trenta connazionali, con loro numerosi bambini. In serata, alle 19, il secondo aereo.
Venera Peritore ha 77 anni portati con baldanza. Attraversa la pista rovente dello scalo pisano abbracciata ai tre nipotini, Lia 15 anni, Zarru 11 e Leila 6. «Il papà, mio figlio, Tayeb El Arbi è rimasto lì, a Tripoli con la moglie. Mio marito, nazionalità libica, è scomparso da tempo. Ho una seconda figlia che ora vive a Dubai. Che tristezza! Io sono in Libia da prima di Gheddafi. Ho insegnato l’arabo nelle scuole italiane. È un Paese bellissimo. La rovina è iniziata con Gheddafi. Ne ha fatte di tutte e di più. Eravamo entusiasti della rivoluzione, invece hanno commesso tanti errori. Spero che la situazione si possa rimettere a posto. Vorrei tornare il prima possibile: la mia vita è là». Impossibile, spiega, rimanere a Tripoli. «Sparavano sotto le nostre finestre».
Enzo, il dottor Enzo («Niente cognome», voglio rientrare appena possibile»), 42 anni, è medico in un reparto di medicina d’urgenza in un ospedale privato di Tripoli. «Ho lasciato due anni fa il mio posto in un ospedale romano. Mi ero rotto della pubblica amministrazione e dell’Italia. In Libia mi trovo bene per quanto riguarda il lavoro. È un Paese con prospettive enormi. Basterebbe che la gente cambiasse mentalità. Invece si sparano addosso. Ora torno a casa, ma la prendo come una vacanza. Se la situazione si riprende, Tripoli mi aspetta». Enzo parla di esodo in massa degli stranieri, e del collasso di tante strutture, a iniziare proprio dagli ospedali. «Ho curato persone ferite da armi da fuoco. Ma questo ormai è normale. Ognuno ha il suo bel Kalashnikov in casa».
Polo blu, sciarpa di cotone al collo, occhiali scuri, Vincenzo Caricato, 53 anni, palermitano di Roma, separato, 3 figli, giramondo per lavoro, non disdegna le aree di crisi. Fa il capocantiere. Quattro mesi fa è sbarcato a Zliten vicino a Misurata. «Avevo contattato Gianluca Salviato: abbiamo lavorato insieme in Russia, siamo diventati amici. Dovevamo rivederci in Libia, invece... Lo hanno rapito e non se ne sa più niente». Da un paio di mesi Caricato era a Tripoli. «Non posso dire che mi sentissi particolarmente in pericolo. Certo, la sera bruciano i depositi di benzina e gasolio, la mattina i pompieri spengono l’incendio e la sera si ricomincia. Senza sosta. Ormai mancano totalmente benzina e gas. Ai distributori ci sono code chilometriche e scarseggia l’energia elettrica. Il resto no, si trova tutto. Ma per quanto potrà andare avanti?». C’è una cosa, però, che non riesce a mandar giù. «Questa gente non reagisce. Chi può cerca scampo verso Tunisi, ma chi resta, la maggior parte, sembra disinteressarsi di tutto. Non fanno nulla. Un intero popolo allo sbaraglio. È sconvolgente».
Non solo italiani, come detto, sui due C130. Alin Boboc, 22 anni, è rumeno. «Lavoravo in un’officina meccanica di Tripoli da due anni. La paga era buona. Ma ormai avevamo paura. Mi hanno contattato dalla Romania, sono di Craiova, e mi hanno detto che era meglio tornassi a casa, di rivolgermi all’ambasciata italiana. Tre ore di volo, ed eccomi qua». Seduto su un trolley stipato all’inverosimile, George Sirbu, 23 anni, annuisce col capo. Anche lui lavorava nell’officina di Tripoli. «Due anni fa siamo stati contattati da un boss che ci ha proposto il lavoro in Libia. Da noi lavoro non ce n’è, così siamo partiti. Ora è finita. Anche i libici, se possono, scappano via. Cercheremo un altro lavoro. In Romania? No, non credo. E neppure in Italia, mi sembra difficile».
Sul volo del pomeriggio c’è Alberto Capellini, ingegnere meccanico milanese che si trovava nella zona di Misurata. «Lì non c’è il caos di Tripoli - spiega - e forse si poteva anche restare, ma abbiamo preferito accogliere il suggerimento della Farnesina e rientrare. Da due mesi lavoro in Libia, mai sentito in pericolo».
Di diverso avviso Donato Giovannini, ingegnere petrolifero, originario di Sansepolcro (Arezzo), residente a Milano e una vita da nomade che lo ha portato a operare in 91 diversi Paesi del mondo. «Tripoli è ormai una città paralizzata e la Libia un Paese fantasma ostaggio delle milizie armate - racconta con enfasi - Le banche non funzionano, i negozi sono chiusi e i terminal petroliferi distrutti, come tanti edifici del centro. Mancano carburante e cibo. E i morti sono molti di più rispetto alle cifre ufficiali». In compenso l’assistenza dell’ambasciata è stata puntuale. «Ci chiamavano 3-4 volte al giorno. Ho avuto paura di morire durante le riunioni in ufficio, sotto i bombardamenti con i razzi che hanno distrutto gli edifici vicino al nostro».
I militari assistono tutti premurosi, le formalità di polizia sono ridotte al minimo. Chi può va via in macchina con i parenti. Gli altri salgono sui pullman in attesa sul piazzale, pronti a essere inghiottiti dal traffico. Bentornati in Italia.
Teodoro Chiarelli, La Stampa 8/8/2014