Camilla Conti, L’Espresso 8/8/2014, 8 agosto 2014
RIFONDAZIONE MONTEPASCHI
[Colloquio Con Antonella Mansi] –
A Siena c’è ancora chi vuole riportare indietro le lancette dell’orologio a quando la Fondazione Monte Paschi era vista come un bancomat da cui prelevare quattrini, e non come un valore al servizio di tutti... Fino al primo agosto scorso Antonella Mansi era presidente della Fondazione Mps, che ha contribuito a traghettare fuori dagli scandali e dal dissesto in cui era precipitata. Una poltrona che, alcune settimane fa, aveva deciso a sorpresa di lasciare, rinunciando a un nuovo mandato di quattro anni. Il 2 settembre del 2013, quando era arrivata a Palazzo Sansedoni, l’ente possedeva ancora il 33 per cento del Monte dei Paschi ma rischiava di fallire, travolto dai debiti contratti anni prima per aiutare la banca senese a sostenere l’acquisto di Antonveneta, operazione poi finita al centro di una complessa inchiesta giudiziaria.
Oggi la Fondazione è scesa al 2,5 per cento del capitale del Monte ma è riuscita a portare a Siena due investitori sudamericani, il fondo messicano Fintech e la banca d’affari brasiliana Btg Pactual, e stringere con loro un patto di sindacato che raggruppa complessivamente il 9 per cento dell’istituto. I due nuovi soci hanno investito, partecipando al salvataggio della Fondazione, e hanno anche contribuito al successo dell’aumento di capitale da 5 miliardi della banca concluso da poco. Ora però si ritrovano orfani, non solo della Mansi, ma anche del presidente della Fondazione. Che ancora manca. Non sono infatti bastati oltre due mesi agli amministratori nominati dagli enti locali per scegliere il successore della Mansi, che ha annunciato il suo addio il 17 maggio. L’ultima fumata nera, lo scorso 29 luglio. I 14 consiglieri della Deputazione generale, l’organo di governo della Fondazione, avevano sul tavolo due nomi, la docente veronese Bettina Campedelli, che attualmente è una componente della stessa deputazione, e Marcello Clarich, professore di diritto amministrativo alla Luiss di Roma. È finita con un pareggio, frutto di veti incrociati. E la riunione è stata aggiornata al 22 agosto, anche se appare probabile un anticipo all’11 agosto.
Ormai fuori dal suo ufficio nel cuore di Siena, Antonella Mansi, famiglia di imprenditori, vice presidente della Confindustria di Giorgio Squinzi, racconta che avrebbe preferito lasciare «con un clima molto più sereno». Ma che a Siena, a dispetto dei guai degli ultimi anni, «ci sono ancora molte interferenze» e «la Fondazione è ancora vittima di condizionamenti ambientali».
Qual è l’obiettivo di queste interferenze? Far rompere alla Fondazione il patto di sindacato con i soci stranieri per rimettere le mani sulla banca?
«Oltre che un controsenso sarebbe una follia. Significherebbe compromettere il raccordo fra banca e territorio che oggi è garantito solo dalla Fondazione. Al tempo stesso Siena rischierebbe di tornare una realtà periferica».
Btg e Fintech sono irritati da questa situazione di stallo?
«Di certo per grandi società che investono sui mercati internazionali certe dinamiche non sono facilmente comprensibili».
Ma perché a maggio ha deciso di non proseguire il mandato al vertice della Fondazione Mps?
«Sono convinta che le poltrone non appartengano a nessuno, le poltrone sono in prestito. Capisco che in Italia si guardi con sospetto a chi lascia l’incarico a naturale scadenza ma a me è sembrato assolutamente normale. Sarà che come vicepresidente di Confindustria ho esperienza di vita associativa non retribuita, ma quando sono stata chiamata a Palazzo Sansedoni ho solo pensato a cosa potevo fare per evitare che la macchina della Fondazione si schiantasse contro un muro. Sulla scelta di lasciare hanno pesato anche esigenze personali. Ho quarant’anni e il mio lavoro nell’azienda di famiglia, la Nuova Solmine. Questa è la mia vita».
Sulla nomina del suo successore il ministero del Tesoro aveva concesso una proroga al 30 luglio. Dopo l’ennesima fumata nera ha inviato una lettera chiedendo alla deputazione di fare presto. Un ultimatum che potrebbe preludere a un commissariamento?
«Non parlerei di ultimatum ma di un sollecito a trovare una soluzione. Il 29 luglio e nei giorni seguenti abbiamo avuto una comunicazione intensa con il ministero. È chiaro che i tempi non si possono dilatare oltre il buonsenso, a tutela della Fondazione stessa, che oggi si sta limitando all’ordinaria amministrazione e non può restare a lungo senza presidente. La priorità è comunque trovare la persona con le giuste qualità e con un consenso ampio».
Lei chi vorrebbe vedere seduto al suo posto?
«Il profilo è tracciato e condiviso dalla stessa deputazione: un presidente indipendente e capace di portare avanti il percorso intrapreso, quello della continuità nella discontinuità, che è il binario da seguire. Per il resto, ho lavorato con Bettina Campedelli, che poteva garantire continuità visto che siede già in deputazione. Mentre conosco il professor Clarich come autorevole docente della Luiss. Spero in ogni caso che il mio successore difenda in piena autonomia e senza condizionamenti il lavoro fatto».
Compresa la sua ultima mossa da presidente, ovvero l’azione di responsabilità promossa nei confronti della passata gestione? Una scelta che, in città, ha messo nei guai molti potenti di un tempo.
«Il taglio netto con il passato è stato sostenuto all’unanimità sia in deputazione amministratrice sia in deputazione generale. La stessa azione di responsabilità è stata promossa non per fare una lista nera ma perché la missione dell’ente non dev’essere tradita di nuovo. Si chiama cogliere il senso del cambiamento».
Per non tornare preda di antichi appetiti non sarebbe più opportuno far uscire le Fondazioni del tutto dall’azionariato delle banche?
«Ha ragione il presidente dell’Acri, l’associazione delle Fondazioni, Giuseppe Guzzetti, quando afferma che se ben gestiti questi enti rappresentano uno straordinario strumento di stabilizzazione nell’azionariato di una banca, perché sono portatori di interessi collettivi che si traducono in valore sociale. Per assolvere a questo ruolo, però, le Fondazioni devono assolutamente diversificare il loro patrimonio».
È solo una questione di buon governo?
«Come suggerisce appunto la celebre allegoria di Ambrogio Lorenzetti sugli effetti del buon e del cattivo governo, che per Siena non dovrebbe essere solo un affresco da ammirare nelle sale del Palazzo Pubblico. Vede, la Fondazione Mps è stata un benchmark, un modello di riferimento, nel male ma anche nel bene. Nel male perché in passato ha commesso tutti gli errori che una Fondazione non dovrebbe mai commettere, a cominciare da quello d’intrecciare il suo destino con quello della banca di riferimento, fino al punto di rischiare di scomparire, di fallire. Il paradigma però si è ribaltato nell’ultimo anno: la Fondazione è scesa nel capitale, ha accompagnato l’ingresso di soci privati affidabili e ha salvato il suo legame con il territorio. Strategia che dovrebbero seguire tutti gli enti».
Oggi nel capitale di Mps ci sono molti soci stranieri come il fondo York Capital, Blackrock e gli stessi Btg e Fintech. Ma più delle azioni conteranno i diritti di voto, quando il prossimo anno si tratterà di scegliere il nuovo presidente e amministratore delegato. Secondo lei chi comanderà sul Monte nel 2015?
«Mi auguro che il patto di sindacato tra Fondazione, Btg e Fintech abbia un ruolo chiave nel futuro del Monte e che si possa rafforzare allargandosi anche ad altri soggetti. È chiaro poi che un management di livello sarà l’altro elemento qualificante».
A proposito di management, lei ha vissuto momenti tesi con l’attuale presidente, Alessandro Profumo. Quali sono stati gli errori di Profumo e quali, invece, i suoi punti di forza?
«Quando il 28 dicembre 2013 l’assemblea dei soci ha accettato la nostra proposta di rinviare di qualche mese l’aumento di capitale stravolgendo i piani della banca, non si è trattato di uno scontro personale fra me e il presidente di Mps. In quel momento ciascuno di noi stava facendo l’interesse dell’azienda che rappresentava. Il giudizio sull’operato di ognuno spetta agli azionisti e comunque si dà alla fine».
Eppure a un certo punto è sembrato che la banca volesse togliere di mezzo il suo azionista storico.
«Lo definirei un effetto collaterale. La priorità per i vertici del Monte era l’istituto. Come per me è sempre stata la Fondazione».
Lei era stata chiamata in Fondazione dal sindaco di Siena, Bruno Valentini, e dal presidente della Provincia, Simone Bezzini. In vista della scelta del suo successore li ha sentiti?
«Assolutamente no. Ho difeso per mesi l’autonomia delle deputazioni e l’ho fatto fino alla fine. Non mi sono mai schierata, non ho mai incontrato con il sindaco alcun candidato, né ho mai fatto telefonate alla ricerca di consensi. Niente di niente. Se l’avessi fatto avrei tradito per prima il percorso fatto. Del resto, per gli enti locali, da quando ho annunciato le mie dimissioni, io faccio parte del passato. Non sono più un interlocutore, dal loro punto di vista. È il normale cinismo della politica. La città cerca un nuovo re».
O una regina. Ad esempio qualcuno la vorrebbe incoronare presidente del Monte dei Paschi. Altri scommettono che presto salirà sul trono di Confindustria. Lei cosa vuol fare da grande?
«Ho le mie responsabilità in azienda, che non ho mai voluto lasciare e di cui ora tornerò a occuparmi a tempo pieno. La mia risposta quindi oggi è: da grande voglio fare l’imprenditore. Resto comunque una persona che ama le sfide e che è curiosa di provare esperienze nuove, sono fatta così. E se la mia testa serve, non ho remore a prestarla per un po’».
Bilancio dei nove mesi a Siena. L’hanno dipinta di volta in volta come Giovanna d’Arco, Santa Caterina e la donna del Monte che ha detto no. Quale sceglie?
«Giovanna d’Arco ha fatto una brutta fine. Non mi sento una santa. Scelgo la terza».