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 2014  agosto 08 Venerdì calendario

CALCI PROIBITI

Manca un giorno al mondiale delle vergogne. Mercoledì 11 giugno, ore 9.45. La Nazionale è già in Brasile. Prepara la partita con l’Inghilterra. A Roma la Federcalcio diffonde un comunicato che passa sotto silenzio. Poche righe su pochi giornali, ignorato da tv e web, per quella notizia è come finire nel cestino. Si pensa solo alle partite. Ma quel giorno si apre la grande crisi del calcio italiano. Giancarlo Abete, 64 anni, presidente dal 2007, decide di dimettersi. Ripete al telefono alla moglie Laura: «Non so se mi sono spiegato».
Lo dice forse a se stesso, che però ha già capito e deciso. Veronica, 26 anni, sta male. Abete deve mollare, aiuterà la figlia a guarire e curerà di nuovo gli interessi di famiglia. L’azienda ha il cognome trasformato in acromico: da A.Be.T.E. sta per Azienda Beneventana Tipografica Editoriale, sede a Roma, aperta dal padre Antonio che con fortunato tempismo lascia il Poligrafico dello Stato per mettersi in proprio, compra una fabbrica al Prenestino, vince l’appalto per stampare 18 milioni di libricini con i Cap, i codici di avviamento postale. Il colpo di una vita.
Giancarlo Abete è riflessivo e criptico. Descritto come un padre dolcissimo e teso in quei giorni, accelera. Anticipa di un mese l’assemblea federale fissata per l’11 settembre, per una modifica statutaria. Non sa come finirà il Mondiale per l’Italia, ma sa quando e perché ritirarsi. È presidente dal 2007, dopo il titolo vinto in Germania e dopo Calciopoli (tutto nel 2006). Bilancio: vicecampione d’Europa (2012) tra i tonfi di Sudafrica 2010 e Brasile 2014, stadi e bilanci disastrati, giustizia sportiva latitante e allarme scommesse. La Nazionale, bistrattata in Brasile dagli organizzatori, va su e giù. Piano viaggi sfibrante, ideato male e gestito peggio.
A Roma intanto si aprono al buio i giochi. Claudio Lotito intravede la svolta: non solo in Lega, potrà influire anche sulla Federazione, quindi giustizia sportiva, arbitri e apparati di controllo come la Covisoc. Si forma subito intorno all’insonne Lotito (riceve fino alle 2 del mattino e dalle 6 telefona) una cordata: obiettivo, le leve di comando del calcio. Si riuniscono in un grumo di smodate ambizioni gli aspiranti oligarchi: si somigliano. Dirigenti di lungo corso nello sport, anziani, assetati di rivincite. Uomini che vivono nel mito di Artemio Franchi, l’onnipotente senese del calcio internazionale che sapeva governare come nessuno, ha vinto sempre lui senza segnare un gol.
Carlo Tavecchio, 71 anni, ragioniere comasco, ex sindaco democristiano di Ponte Lambro, disinvolto nella sua vocazione agli affari, è il candidato giusto. Debole, quindi facile da telecomandare. Porta in dote il 34 per cento dei voti. È la quota della Nazionale di Lega Dilettanti che presiede da 1999. Nota per il motto: «Il calcio siamo noi».
C’è poi Mario Macalli, milanese di 77 anni, guida la Lega Pro con 60 società e quota voti del 17 per cento. L’anomalia è questa: la serie A vale il 12 per cento, la B il 10. Amico di Tavecchio, uscito indenne da una lunga malattia, Macalli giura fedeltà all’amico. Sarà vicepresidente della Figc. Vanta l’opera del suo direttore, Francesco Ghirelli: il solo che abbia eretto una minima trincea con Integrity tour (contro le frodi sportive) e la svizzera Sportradar, altra trincea contro l’aggressione delle scommesse con centrali in Asia, giro tra lecito e mafioso di 500 miliardi di euro. Ghirelli e la Lega Pro operano con il vicecapo della polizia Francesco Cirillo e l’Interpol. Le altre Leghe, nulla.
Nella scalata al potere, Lotito conta su Adriano Galliani, 70 anni, ad del Milan, vicepresidente di Lega. Ha una personale esigenza: deve resistere a Barbara Berlusconi, ad anche lei nel Milan. Galliani sa che prevale sulla esuberante rivale finché può contare nei Palazzi del Calcio. Si rivede Franco Carraro, 75 anni, come membro d’onore spiega il discorso, l’applauso e la sua presenza in prima fila con Tonino Matarrese all’Hilton di Fiumicino il 25 luglio, quando Tavecchio in assemblea di Lega Dilettanti ufficialmente si candida.
Carraro si dimise nel 2006 da presidente della Figc, indagato per frode sportiva in Calciopoli, squalifica a 4 anni e 6 mesi convertita dalla Caf (Corte di Appello Federale) in 80mila euro di sanzione, prosciolto a sorpresa dal gip di Napoli Eduardo De Gregorio il 29 maggio 2009. Scavando in archivio, si rilegge la telefonata intercettata: raccomandava al capo degli arbitri Paolo Bergamo una squadra. Lui, il presidente, garante della regolarità del torneo? Un equivoco, certo. Ma quale squadra? La Lazio di Claudio Lotito, suo puntuale elettore.
È fuori da Calciopoli ma sparisce Carraro il Poltronissimo, definito così con inconsueta ironia da Wikipedia per il cumulo di incarichi. Si legge: «Il suo potere è stato meno lungo solo di Fidel Castro». Ministro socialista nel governo Golia, sindaco di Roma, pendolare tra Coni e Federcalcio, Capitalia e Mediobanca, calcio e sci nautico. Ora è solo senatore di Forza Italia, Commissione Finanze e Tesoro. Non si distingue per clamorosi disegni di legge.
Carraro, invisibile come un sottomarino, non smette di navigare. Ci vuole la trasmissione satirica Un giorno da Pecora di Radio 2 per rivelare l’ultima missione. La Nazionale già respinta tra sconfitte e veleni, ma c’è la finale Germania-Argentina in Brasile, e lui ha in tasca una carta d’imbarco. Perché Carraro, che va a fare? Non è uscito dopo lo scandalo di Calciopoli dallo sport, ha dimenticato di informare qualcuno? La Nazionale è in Italia, e lui infila la rotta inversa, quale «membro della Commissione Organizzazioni» della Fifa. Che forse invita e spende, niente risparmi, per carità.
Franco Carraro riappare il 25 luglio, quando Tavecchio a braccio declama il suo programma, una gaffe dopo l’altra. È lui che presenta il candidato in un discorso senza enfasi: «Forse è troppo poco glamour, ma è affidabile e solido, riporterà i valori in Federazione». Ci pensa poi Tavecchio a raccontarsi meglio. Rimarca il suo pragmatismo con gesti da amicone di osteria e metafore di involontario umorismo. Si sente «un maiale che va al macello, quando entro nello stadio tra quei tornelli». Deplora l’invasione di extracomunitari, aprirà solo agli stranieri con un curriculum, illustra in dissennata allegria il concetto: «Non vorrei un Optì Pobà che prima mangiava banane e ora gioca titolare nella Lazio». Il nome è di fantasia, ma il richiamo alla Lazio del suo sponsor Lotito porta per assonanza al movimentato soggiorno di Mobido Diakité, francese con passaporto malese, difensore ora del Sunderland. Ma è una conferma: la frase basta per sollevare ondate di sdegno anche all’estero. Le mitiga la Lega (sapete come la pensa sugli immigrati) e Forza Italia (partito di Carraro e vicino al Milan di Galliani) e la stessa Lazio. «Cara Cécile, il mio amico Carlo è tutto tranne che un razzista». Chiede l’intervento dell’ex ministro anche Kossi-Komila Ebri, testimone di iniziative e opere di Tavecchio nel Togo. Un missionario incompreso, dunque.
Ben compreso è invece il disegno. Per il calcio femminile, Tavecchio ha già redatto un piano dal titolo impaziente più che romantico. «Spogliati e gioca!». Pensa ad una serie A ridotta da 20 a 18 squadre, due in meno. Ammiccante l’idea: saltano due quote di proventi tv, da redistribuire tra 18 società. Medita su una riforma della Legge 91, più giovane degli oligarghi, solo 33 anni, ma vecchia e sbilanciata in favore dei calciatori. «Lavoratori subordinati con contratto a termine», con troppe tutele. Piace quindi ai presidenti. Al contrario dell’altro candidato, Demetrio Albertini, 43 anni, da 7 vicepresidente della Figc, sostenuto da Asso-calciatori, allenatori e arbitri, ora bollato con un’altra metafora. «Come se in Confindustria venisse a dettar legge la Cgil».
Il timore di nuovi diritti in favore di chi allena, gioca e arbitra spinge la maggioranza dei club verso Tavecchio. Aderisce anche il capo della Lega di B Andrea Abodi, che rompe così con Andrea Agnelli, non dimenticando promesse e sconfitta nella corsa alla presidenza della Lega. Non è un caso se la spuntò Maurizio Beretta, uomo Unicredit, alla guida di una serie A con un debito di 1,6 miliardi, 64 per cento, 600 milioni annui di disavanzo. Il fatturato di circa 2 miliardi (la metà della Bundesliga tedesca) aumenta dell’8 per cento ma lievitano anche i costi (più 4 per cento).
È un caso invece che dissenta dalla linea Lega-Unicredit la Roma, sostenuta da quel gruppo bancario. La Roma non tollera però una subalternità politica alla Lazio. In consiglio di lega è palese l’ostilità di Lotito. La Roma devia quindi verso la Juve, formando con Inter e Fiorentina «l’altra anima del calcio».
Lotito invece si occupa della Lazio, ma anche della Salernitana. È attento ad altre società. Un certo feeling si intravede con il Bari dell’ex arbitro Paparesta e la Sambenedettese. Chissà perché Tavecchio era orientato a riconoscere ai presidenti una «possibile seconda proprietà». Lotito vuol trasferirsi con pari potere alla Federazione: nel piano Tavecchio, lui figura come vicepresidente vicario, accanto a Mario Macalli in un possibile schema con 4 settori ben presidiati e un segretario generale.
In corsa Michele Uva, 50 anni, professore a Tor Vergata, carriera in febbrile slalom nello sport. Comincia nella sua Matera con la Pallavolo femminile, in Basilicata a gennaio lo davano già futuro presidente della Figc. Prezioso in campagna elettorale a Giovanni Malagò, ne ha ricevuto la guida di Coni Servizi, 300 mila euro lordi. Stesso nome circolava per un eventuale ruolo da commissario della Figc, ma depennato da una voce fatta subito circolare. La nomina destinata a Giulio Napolitano, figlio del presidente, giurista. A lui Malagò affida già la rielaborazione della giustizia sportiva. La scalata di Uva è in parallelo con le buone amicizie: i contatti con Latte Rugiada (Parmalat) lo portano nel giro di Callisto Tanzi, quindi a De Mita, il banchiere Cesare Geronzi, il campione di versatilità Franco Carraro. L’Italia del potere è immensa, ma gira e rigira emergono sempre gli stessi nomi.
La controffensiva ha tentato di fermare Albertini, rievocando lo sfacelo mondiale. Riflessivo, silenzioso persino più del fratello Don Alessio, prete-sprint di Rai2, Albertini è stato capo-delegazione in Brasile. Tra gli errori, l’arrivo delle famiglie. Opportuno, avendo Prandelli invitato la sua compagna. L’invasione ha distratto i giocatori. Si ricorda la tormentata vigilia della gara col Costa Rica, con Balotelli al telefono angustiato tra la mamma di sua figlia in Italia Raffaella Fico e in Brasile la bella mulatta bionda Fanny Robert Neguesha. Lo stesso Albertini è sconcertato, ma alla fine. Nel caos dell’albergo di Natal, prima dell’Uruguay, a tre ore dalla gara, osserva le mogli dei più giovani colorate e giulive nella hall. Sembrano in partenza al Molo Beverello per una gita a Capri. L’Italia va invece verso la disfatta. A 15 minuti dalla riunione tattica, è la Security che rintraccia Balotelli in un altro piano. Come poteva vincere la nazionale che per giunta non correva?
Si ricomincia, ma come? Il 4 settembre amichevole Italia-Olanda a Bari, il 9 con la Norvegia prima gara di qualificazione europea a Oslo. Senza guida, senza campioni, senza idee. Conte che si sfila dopo l’ultimo tornado e Mancini che si defila, offeso sembra per la precedenza all’ex juventino. Mancano i fondi per un ingaggio rilevante. Il 30 dicembre scadono i contratti degli sponsor, 20 milioni e oltre. Resiste quello con Puma, 15 l’anno.
Il calcio riflette la crisi del Paese. Il debito dei club di A, 1.600 milioni, sembra irreversibile. La confusione è sovrana. Non va meglio a Fifa e Uefa. Per Blatter c’è il nipote Philippe nello scandalo di Infront Sports, con retate per i biglietti del Mondiale. L’avvocato Laurent Platini, figlio di Michel, lavora per Quatar Sports Investiment, società della galassia che controlla il Paris Saint Germain dello sceicco Al-Tani. Sfora nelle spese di 200 milioni, in tempi di fair play economico. Si gioca ovunque con un pallone bucato, ma finché rimbalza lasciate giocare tutti.