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 2014  agosto 06 Mercoledì calendario

“E HITCHCOCK CAMBIÒ IL FINALE DI UN CERTO PHILIP ROTH”

[Intervista a Norman Lloyd] –
Alla fine di quest’anno Norman Lloyd festeggerà cento anni. Due anni fa il Festival di Cannes gli ha reso omaggio durante una “lezione di cinema”: per molti, quella è stata l’occasione per scoprire un professionista del mondo dell’entertainment dalla carriera esemplare. Attore, regista e produttore, Norman Lloyd fin dal suo esordio ha sempre lavorato con i migliori, dei quali il più delle volte è diventato amico: Welles, Chaplin, Renoir, Milestone o Laughton. Senza dubbio, però, il suo rapporto privilegiato è con Hitchcock.
Regista di 25 episodi della serie Alfred Hitchcock presenta , attore in tre di essi, Lloyd ne ha garantito la produzione al fianco di Joan Harrison dal 1957 al 1962.
Lei ha iniziato a lavorare in teatro con Orson Welles, ma è stato Hitchcock a farla debuttare al cinema...
«Nel 1942 ero un giovane attore, avevo lavorato con Orson Welles al Mercury Theatre. John Houseman, che era stato partner di Welles al Mercury, si trovò sotto contratto con David O. Selznick nello stesso momento di Hitchcock. Quest’ultimo chiese se conosceva un attore che potesse recitare la parte del sabotatore in Sabotatori. Houseman fece il mio nome. Il primo incontro fu molto cordiale. A 26 anni ero ancora un ragazzo, ma la sua scossa mi attraversò subito da parte a parte».
Ha recitato la parte del cattivo che cade dalla Statua della Libertà. Durante le riprese ha mai avuto il presentimento che quella scena sarebbe diventata famosa?
«Hitchcock era un maestro della narrazione. Utilizzava l’espressione “la logica della cinepresa”. “La cinepresa vi accompagna nella storia”. Dopo Sabotatori siamo diventati amici. Mi piaceva molto la signora Hitchcock, una signora inglese minuta, molto middle-class. Quando Hitchcock la conobbe, nel 1926 a Berlino, scriveva in bella grafia i cartelli per gli inserti dei film muti, un incarico importante. Era più addentro nel mondo del cinema di chiunque altro. Fu lei che, alla proiezione di Psycho notò che Janet Leigh, caduta morta nella vasca da bagno “aveva ingoiato la saliva una volta”. In un certo senso, Hitchcock mi ha adottato! In seguito mi ha offerto una particina in Io ti salverò e poi la produttrice Joan Harrison e lui mi hanno scelto per la loro serie. Complessivamente, la nostra amicizia è durata trentotto anni».
Perché Hitchcock si interessò alla televisione?
«Hitch aveva un agente che veniva dall’Mca, la più potente agenzia di settore. Nel 1954, Lew Wasserman e Jules Stein, a capo della Mca, si resero conto che la tv era una miniera d’oro. Investirono centomila dollari e fondarono la Revue Production. All’epoca la televisione era un ambiente che le vere star del cinema non frequentavano. Ma Mca assicurò a Hitch di trovargli dei veri divi. Al punto che nel 1955 Hitch accettò di parteciparvi. Non ho mai saputo chi abbia avuto l’idea di farlo apparire all’inizio di ogni episodio… Tutti, infatti, cominciano con questi straordinari prologhi, con introduzioni scritte da James B. Allardice, che era una specie di genio. Non c’è una sola parola pronunciata da Hitchcock nella serie durata dieci anni che non sia stata scritta da lui. Allardice gli ha fatto dire cose strane, interpretare suo fratello, con tanto di baffi e cappello, o recitare con un leone! E Hitchcock non ha mai cambiato una sola virgola del testo. Era un brillante dialoghista a tal punto che gli fu chiesto di dedicarsi esclusivamente a Hitchcock. Tutte le idee erano di Allardice, ma la sua identificazione con Hitch e il personaggio della serie era perfetta ».
Quei prologhi sono famosi anche per la loro ironia anti-pubblicitaria.
«Adorava questa cosa! E vuole saperne un’altra? Anche i pubblicitari l’adoravano. C’era un certo Charlie che rappresentava la Procter and Gamble. Amava Hitchcock e che si prendessero gioco di lui. Anche Hitch lo apprezzava molto e insieme trascorrevano momenti divertenti».
In che cosa consisteva il suo lavoro, Mr Lloyd?
«Hitchcock aveva l’abitudine di delegare e lo sapeva fare molto bene. Aveva la certezza che la produttrice Joan Harrison e io sapessimo che tipo di storia volesse raccontare. Poteva essere qualcosa di comico o di drammatico, ma doveva esserci in ogni caso della suspense e un ribaltamento della situazione nel finale. In mancanza di questo rovesciamento, la storia era squalificata: spesso ci capitava di acquistare una storia che non aveva questo dettaglio importante e a quel punto dovevamo inventarlo noi. Un giorno mi capitò un racconto di Philip Roth, uno scrittore che non era del genere di quelli che realizzavano racconti di suspense per Hitchcock, ma la sua era una storia molto commovente. In un campo estivo, durante le vacanze, un ragazzino scopre di essere molto dotato per i lavori manuali. Un giorno riceve dell’argilla e con essa inizia a modellare un personaggio che però non riesce a completare. Un educatore cerca in ogni modo di fargliela ultimare, senza riuscirci. Questo è tutto. Ma ciò che si viene a creare tra i personaggi era talmente forte che ho proposto lo stesso la storia a Hitchcock ed egli subito ha suggerito un finale esplosivo, che ribaltava tutto. In pratica ha avuto l’idea di capovolgere le cose: il ragazzino lavora alla sua statuina senza riuscire a ultimarla. Alla sua creazione manca il braccio destro, ma il ragazzino non riesce in alcun modo ad aggiungervi altro. La porta si spalanca ed entra suo padre, che ha un braccio solo. Ecco, è così che Hitchcock si inseriva in una storia. Sono io ad aver realizzato quell’episodio: The contest for Aaron Gold con Sydney Pollack».
Hitchcock faceva commenti sulle sceneggiature degli episodi che non dirigeva personalmente?
«Pochi, tranne quando voleva girare qualche cosa in modo diverso. Calcolava nei minimi dettagli il necessario per informare lo spettatore. Quindi, in pratica, lui approvava la sceneggiatura e io giravo. Gli mostravamo il primo montaggio e lui lo guardava con grande concentrazione. Se non ne era entusiasta, si limitava ad alzarsi e ad andarsene. Non diceva mai “non mi piace” e neppure “fate questo o fate quello”. La Shamley Productions, la sua società, produceva la serie d’accordo con Mca. In pratica, in gioco c’erano i suoi stessi soldi. Hitchcock non chiedeva mai di girare una scena di più. Sarebbe stata uno spreco. La tappa seguente, per noi, era di mixare il sonoro e il brano del compositore. Per noi hanno lavorato eccellenti musicisti, in particolare Bernard Herrmann. Infine, ultimavamo il montaggio senza che Hitchcock mettesse mai piede in sala di montaggio e di proiezione. Poi, la domenica sera successiva, alle 21, guardava il film terminato. Aveva visto soltanto il montaggio e diceva: “È solo sullo schermo della televisione che dovete giudicare il film”».
In quanti episodi ha recitato?
«Tre: il primo si intitolava Design for loving del 1958 ed era un racconto di Ray Bradbury. La mia ultima apparizione come attore è stata in Maria (1961): è la storia di un tizio che lavora al circo e il cui numero consiste nel leggere nel pensiero. Una notte, ubriaco in un bar, cede il proprio numero in cambio di un altro e recupera una scimmia che sa fare le capriole. In quell’occasione Hitch mi diede un consiglio: la storia sarebbe stata decisamente migliore se alla fine si fosse scoperto che lo scimpanzé è una donna che indossa un costume da scimmia ed è perdutamente innamorata del suo partner. La mia sfida consistette nel cercare a Los Angeles una nana proveniente dal Messico che facesse striptease. La cosa più buffa fu che per alcune scene fu necessario farla doppiare da uno scimpanzé in carne e ossa!».
Perché per Psycho Hitchcock utilizzò tecnici della tv?
«Pensava che una troupe della televisione potesse comprendere meglio il suo desiderio di velocità. Non voleva un film cinematografico normale: la telecamera doveva poter improvvisare e girare una decina di pagine di sceneggiatura invece di quattro. Così arruolò l’eccellente capo operatore John Russell, che era calmo, rapido, intelligente. In televisione con noi lavorarono altri grandi tecnici, come Stanley Cortez, il capo operatore di Welles. Insomma, si ritrovò una troupe formidabile già pronta. Oggi la serie Alfred Hitchcock presenta è considerata un capolavoro, ma all’epoca la nostra sfida era riuscire a trasmettere una storia a settimana».
© 2-014, Cahiers du Cinéma, Juillet-Août 2-014 Traduzione di Anna Bissanti
Thierry Méranger, la Repubblica 6/8/2014