Franco Marcoaldi, la Repubblica 6/8/2014, 6 agosto 2014
LA RISATA DI CERONETTI DI FRONTE ALL’APOCALISSE
Dopo l’avvento ormai irreversibile della posta elettronica, il carteggio tra Guido Ceronetti e Sergio Quinzio (Un tentativo di colmare l’abisso, lettere 1968 1-996, Adelphi, conclusosi con la morte di Quinzio), corre il rischio di essere uno tra gli ultimi a venire pubblicati. Peccato, perché pur riconoscendo tutti i vantaggi offerti dall’uso di e-mail — e già su questo, forse, Ceronetti avrebbe da ridire — è altrettanto chiaro come la vecchia lettera imbustata e spedita implichi uno sforzo e una cura, di pensiero e linguaggio, inevitabilmente perduti nella scrittura elettronica.
C’è, in aggiunta, da mettere in conto l’assoluta originalità di tale carteggio, un corpo a corpo ultradecennale tra due autentici eterodossi della cultura italiana. La stima è evidente, l’affetto sicuro, continui i gesti di reciproca generosità. Ma l’asprezza del confronto è aperta, costante. E già questo, in un’epoca che ci vede sempre pronti a eludere, smorzare e aggiustare i giudizi nei confronti di persone vicine, basterebbe a farne un prezioso reperto di schiettezza intellettuale.
Qual è dunque l’oggetto del contendere, e come si caratterizzano i protagonisti in scena? Per aiutarci, potremmo utilizzare quel famoso verso di Archiloco magnificamente ripreso da Isaiah Berlin nel tentativo di distinguere nella storia della cultura russa due grandi famiglie spirituali: «la volpe sa molte cose, ma il riccio ne sa una grande». Volpi sono «coloro che perseguono molti fini, spesso disgiunti e contradditori», mentre ricci sono quanti riferiscono tutto «a un principio ispiratore, unico e universale».
Secondo tale schema, Quinzio, seguace del dettato di Heidegger per cui ogni vero pensatore pensa un pensiero solo, risulterebbe un riccio a pieno titolo. Nel suo caso tutto infatti ruota attorno a La sconfitta di Dio, a quella promessa di bene e giustizia contenuta nelle Scritture e inghiottita dal mare della storia. Di qui una testarda, inflessibile speranza di salvezza affidata all’escatologia, all’attesa messianica dell’ultimo giorno, quando finalmente si affermerà la «resurrezione della carne » per «la vita eterna».
E Ceronetti, invece, che animale è? Agli occhi di Quinzio sicuramente una volpe, perché l’attento lettore delle Scritture, l’originale traduttore di Qohélet, Salmi, Isaia , è al medesimo tempo pericolosamente irretito dal “gioco” letterario — odiato «pendio lungo il quale scende il sacro fino a perdersi nel nulla», esecrabile nostalgia romantica e decadente degli antichi abissi.
Per rispondere a un attacco così duro, lo scrittore torinese sfodera le consuete armi satiriche: «C’è un Ceronetti serio a metà, devo avvertirtene. Tu sei serio sempre, teologico, apocalittico, esegetico — io no. Adopero altri ingredienti e sovente ironie che mi permettono di non soffocare in climi intollerabili, dove le soluzioni debbano essere implacabili». In costante polemica con il cristianesimo, Ceronetti si sente contemporaneamente dentro e fuori alla dimensione religiosa: «Sempre in bilico tra la demolizione razionalista e la follia mistica: l’ortodossia, a metà strada, mi è indifferente».
Due intellettuali che di primo acchito potrebbero sembrare tanto vicini, non foss’altro nel comune antimodernismo, vedono così le loro strade divaricarsi in modo drammatico. E poiché — incredibile a dirsi data la loro natura — amano entrambi la boxe, salgono sul ring dello spirito. E lì per ventotto anni duellano senza posa, mentre le loro esistenze procedono tra dolori, abbandoni, terribili lutti. Matura intanto la convinzione che comunque non ci sarà alcun vincitore: già il titolo del carteggio del resto, come ricorda Ceronetti, «indica il fallimento del nostro personale combat spirituel».
Andrebbe infine detto qualcosa anche della vita “bassa”, che irrompe con le sue mille incombenze, rogne, disagi, acciacchi. Su questo terreno Sergio e Guido si comportano come due veri amici: scambiandosi ordinativi di miele, saponette, riso e marmellata, oltre che consigli curativi e dietetici. Affrontando di petto l’attualità che forse distrae, ma comunque interferisce con la vita di ciascuno: anche quella di uno gnostico o di un apocalittico.
E qui, per restare alla boxe, Ceronetti si dimostra dotato di una varietà di mosse e colpi superiore a quella di Quinzio. Bene lo si evince leggendo la nuova edizione del suo Viaggio in Italia (Einaudi), che comparve per la prima volta nel 1983, ma che sembra non invecchiare mai; forse anche per quel suo tono allucinato — metafisico e per quella sua dedica «agli amici dell’Italia invisibile», un corpo sociale e spirituale fantasmatico che, evidentemente, malgrado tutto, resiste al precipizio del tempo.
Per compiere quel viaggio, o meglio quel «pellegrinaggio iniziatico», lo scrittore torinese si era affidato allora a una parola oggi definitivamente logorata: la “bellezza”. Nella convinzione non tanto che essa salverà il mondo, ma che i suoi frantumati bagliori siano indispensabili per la conoscenza delle cose.
Eppure, mentre dichiara di cercare luce e purezza, Ceronetti è — come scrisse il suo amico e ammiratore E. M. Cioran — irresistibilmente attratto dalle tenebre e dall’orrore. Sicché racconta quanto vede sempre all’insegna del doppio: Venezia va “letta” assieme a Marghera; il fantasmagorico Po alla centrale di Caorso. Il Bene non può essere disgiunto dal Male, perché “il campo di lotta” è comune.
Il numero principe di Ceronetti, dunque, non è né l’uno del riccio, né la molteplicità indefinita della volpe. Semmai è il due del manicheismo, lo stesso manicheismo dell’amato Blake. E l’animale di riferimento, allora, potrebbe a buon diritto essere il centauro. Per questo mi piace immaginare Ceronetti nei panni di Chirone, il maestro di Achille, al quale insegnò — tra l’altro — proprio l’arte del pugilato.
Franco Marcoaldi, la Repubblica 6/8/2014