Vanity Fair 6/8/2014 – Tratto da The Duke In His Domain, di Truman Capote. Copyright 1957, 1965, 1966, 1968, 1969, 1971, 1972, 1973 by Truman Capote. Per concessione diRandom House Publishing Group. Originariamente pubblicato nel New Yorker, novembre 1957, 6 agosto 2014
LA MIA MAMMA DI PORCELLANA – A 10 ANNI DALLA MORTE DI BRANDO
La minuta cameriera del quarto piano dell’hotel Miyako, a Kyoto, mi guida in un labirinto di corridoi, promettendo: «Ti busso io Marron». Il suono della lettera «I» in giapponese non esiste, per «Marron» intende Marlon – Marlon Brando, l’attore americano, che qui a Kyoto sta girando l’adattamento cinematografico del romanzo di James Michener, Sayonara.
«Salve», mi fa. «Sono già le sette?». Ci siamo dati appuntamento per le sette a cena, e io in realtà sono in ritardo di venti minuti. «Si tolga le scarpe, entri pure, sono pronto in un minuto». Guarda la ragazza che corre via, si mette le mani sui fianchi e sorride: «Mi fanno morire. Anche i bambini. Non pensa che siano meravigliosi, non piacciono anche a lei, i bambini giapponesi?».
Il suo quartier generale consiste di due stanze, un bagno e una veranda vetrata. Tutte le sue cose sembrano essere fuori dagli armadi. Camicie pronte per la lavanderia; calzini, anche; cappelli e cravatte, sparpagliati qua e là come i resti di uno spaventapasseri smembrato. Macchine fotografiche, una macchina per scrivere, un registratore, una stufa elettrica che funziona con soffocante efficienza. Pezzi di frutta mordicchiati. E poi libri, una cascata di libri da pensieri profondi, tra cui riconosco The Outsider di Colin Wilson e saggi sulla preghiera buddista, sulla meditazione zen, sulla respirazione yoga e sul misticismo hindu. Ma nessun romanzo: Brando dichiara di non avere mai aperto un romanzo dal 3 aprile 1924, il giorno in cui è nato a Omaha, Nebraska.
Benché non ami leggere narrativa, a quanto pare desidera scriverla. Il tavolino di lacca è carico di posacenere straccolmi e cataste di pagine del suo ultimo sforzo creativo, A Burst Of Vermilion, una sceneggiatura (che poi, riscritta da altri, sarà la base del suo unico film da regista, il western I due volti della vendetta, nel 1961, ndr).
Mentre aspettiamo la cena, Brando adagia la nuca su un cuscino sul pavimento. Le palpebre scendono, si chiudono. Quando alla fine parla, la sua voce – una voce priva di emozioni, in un certo senso cortese e raffinata eppure, a sorpresa, adolescenziale – sembra venire da un luogo remoto e assonnato.
«Questi ultimi otto-nove anni della mia vita sono stati un macello», dice. «Gli ultimi due, forse, un pochino meglio: è stata meno forte quella sensazione di rollio nel cavo dell’onda. Lei è mai stato psicoanalizzato? All’inizio ne avevo paura. Paura che avrebbe distrutto gli impulsi che mi rendono creativo, che fanno di me un artista. Una persona sensibile riceve cinquanta stimoli nell’arco di tempo in cui qualcun altro magari ne riceve sette. Le persone sensibili sono parecchio vulnerabili; e più sei vulnerabile, più è certo che verrai brutalizzato, e che ti coprirai di cicatrici. Rischi di non evolvere mai, di non permetterti di sentire più nulla, perché hai sempre sentito troppo. L’analisi aiuta, a me ha aiutato. Eppure, questi otto-nove anni sono stati davvero un macello...». La voce continua perché, come spesso accade a una persona presa da se stessa, Brando è uno specialista in monologhi. «Quando ci sono io, gli altri stanno zitti», dice. «Sembra che vogliano solo ascoltarmi. Ecco perché parlo sempre io».
Lo guardo e ho la netta sensazione di rivivere il mio primo incontro con lui. Era un pomeriggio d’inverno del 1947 a New York quando andai a teatro ad assistere a una prova di Un tram che si chiama Desiderio, l’opera di Tennessee Williams in cui Brando interpretava il personaggio – Stanley Kowalski – che gli avrebbe dato la fama. Ma quel pomeriggio, io non avevo idea di chi fosse. Essendo arrivato in anticipo, trovai la platea totalmente deserta e un giovanotto muscoloso che dormiva come un sasso, disteso su un tavolo sopra il palco. Poiché indossava una T-shirt bianca e pantaloni di denim, e per via del suo fisico da palestra – le braccia da sollevatore di pesi, il torace da culturista (per quanto, aperto sopra, portasse il volume delle Opere principali di Sigmund Freud) – pensai fosse un macchinista di scena. O meglio, lo pensai fino a quando non salii a guardargli il volto da vicino. Era come se la testa di un altro fosse stata trapiantata sul corpo muscoloso. Perché questa era una faccia per niente dura, che sovrapponeva una raffinatezza dolce e quasi angelica a una ben scolpita bellezza.
Il Brando che ho davanti a me oggi, quello che, disteso sul tatami, aspira pigramente sigarette con il filtro e intanto parla e parla, è ovviamente una persona diversa. Ha il corpo più massiccio, la fronte più alta perché i capelli sono più radi, è più ricco. C’è anche un altro cambiamento. I suoi occhi sono diversi. Ora guarda gli altri con sicurezza, con quella che definirei un’espressione di compassione, come se abitasse sfere illuminate a cui essi, con suo rammarico, non hanno accesso.
Le fattezze vagamente morbide del suo volto, quelle, sono rimaste. O quasi. Cercando di intromettermi nel discorso, gli chiedo: «Come si è rotto il naso?».
«...con questo non intendo dire che sono sempre infelice. Ricordo un aprile in Sicilia. Una giornata caldissima, fiori dappertutto. Io amo i fiori, quelli che profumano. Le gardenie. Mi misi a passeggiare da solo. Mi distesi in un campo di fiori, mi addormentai. Ecco, quello mi rese felice. Ero felice, quel giorno. Scusi? Aveva detto qualcosa?».
«Mi chiedevo solo come si è rotto il naso».
Sorride, come ricordasse un’esperienza tanto felice quanto il pisolino siciliano. «Mentre facevamo Un tram che si chiama Desiderio, con alcuni dei macchinisti si scendeva a far baldoria nella stanza delle caldaie. Una sera mi sono messo a fare a botte con un tipo e: crack! Sono andato a piedi fino all’ospedale più vicino. Il naso era proprio distrutto. Mi hanno dato un anestetico per rimetterlo in posizione, e mi hanno ricoverato. Non che mi dispiacesse: le repliche andavano avanti da quasi un
anno, non ne potevo più».
(Mi dirà poi Irene Selznick, produttrice dell’opera di Tennessee Williams, a proposito dello stesso episodio: «Improvvisamente il suo volto era molto diverso. Duro, quasi. Per mesi non feci che ripetergli: "Ti hanno rovinato la faccia, devi farti rimettere a posto il naso". Fortunatamente per lui, non mi ha dato ascolto. Credo francamente che quel naso rotto sia stato la sua fortuna. Gli ha dato sex appeal. Prima, era troppo bello»).
Brando approdò a Hollywood nel 1949 per interpretare il protagonista del Mio corpo ti appartiene, un film sui soldati tornati paraplegici dal fronte. Il suo atteggiamento verso il mondo del cinema lo riassume così: «Sono qui per un solo motivo, perché non ho il coraggio morale di rifiutare i soldi».
Avvertendo il silenzio che si è creato nella conversazione, lo riempie: «Anche se i film hanno un potenziale grandissimo. Ti permettono di dire cose importanti a un gran numero di persone. A proposito della discriminazione, dell’odio, del pregiudizio». Arrivando a Tokyo, ha convocato una sessantina di giornalisti per spiegare loro che ha accettato di girare Sayonara – la storia di un maggiore dell’aviazione americana che si innamora di una ballerina giapponese – proprio per combattere il pregiudizio. E perché gli avrebbe dato «la preziosa opportunità» di lavorare con Joshua Logan.
Ma da allora le cose sono cambiate, dice Brando con uno sbuffo: «Ci rinuncio. Faccio la mia parte con il pilota automatico. A volte mi sembra che nessuno noti la differenza. Nei primi giorni di riprese, ho provato seriamente a recitare. Poi ho fatto un esperimento. In una scena, mi sono sforzato di fare tutto sbagliato: smorfie, occhi alzati al cielo. E che cosa ha detto Logan? "Perfetto! Buona la prima!"». A questo aneddoto va probabilmente applicata una delle altre frasi ricorrenti di Brando: «Intendo seriamente solo il 40 per cento di ciò che dico».
La cena si fa attendere. Quando finalmente arriva, sto rispondendo alle curiosità di Brando su un mio conoscente, un giovane americano discepolo buddista, che proprio qui a Kyoto, nel tempio Nishi Honganji, sta conducendo una vita contemplativa, ma non esattamente ultraterrena. Il volto improvvisamente immobile, mi ascolta con sorprendente attenzione mentre gli racconto che il mio amico frequenta i cinema locali e, avendo letto della presenza di Brando in città, desidererebbe incontrarlo. Lui non sembra divertito: il suo lato puritano, che è piuttosto forte, è stato toccato. «Come l’altro giorno, sul set. Giravamo in un tempio, e uno dei monaci mi ha chiesto una foto autografata. Che ci fa un monaco con il mio autografo?». Osserva, pensoso, i libri sparsi per la stanza, in gran parte dedicati a temi mistici. «Quello che vorrei fare», dice alla fine, «è parlare con qualcuno che sappia di queste cose. Perché...». Lo interrompe la cameriera, che entra con passo felpato, tenendo in equilibrio ampi vassoi. «Perché», riprende, «sto prendendo in considerazione l’idea – e dico sul serio – di mandare a monte tutto. Tutta questa cosa dell’essere un attore di successo. Che senso ha, se non evolve in niente di altro. Certo, hai successo, dovunque tu vada ti accolgono a braccia aperte. Ma tutto questo non porta a nulla». Strofina il mento con il tovagliolo, come se si stesse togliendo il trucco di scena. «Il troppo successo ti può rovinare, tanto quanto il troppo insuccesso».
Continua: «Mi ci è voluto molto tempo prima di rendermi conto che il mio era un successo. Facevo da un paio di mesi Un tram che si chiama Desiderio quando una sera – lontano, ovattato – ho sentito l’urlo della folla. Era come se fossi stato addormentato, e improvvisamente mi svegliassi, seduto sul malloppo». Mentre mangiamo, ritorna sull’idea di rinunciare al suo status stellare. E opta per un compromesso. «Ecco che farò quando tornerò a Hollywood: licenzierò la segretaria e traslocherò in una casa più piccola». Sospira di sollievo, come se si fosse già liberato di quelle vecchie zavorre. Poi si acciglia: «Però ci deve essere un recinto, per via degli uomini con le matite. Ho bisogno di un recinto per tenerli lontani. Per il telefono, invece, immagino non ci sia niente da fare». «Il telefono?». «È sotto controllo. Il mio lo è, perlomeno». Gli chiedo: da chi? Masticando la bistecca, mormora qualcosa. Sembra riluttante a rispondere, ma sicuro di quel che dice: «Quando chiamo gli amici, parliamo francese. O un codice nostro, che fa il verso al bebop». Dissotterra una lettera da sotto i piatti e, senza smettere di mangiare, la legge silenziosamente, come fa un signore a colazione con il quotidiano. Poi spiega: «È di un amico. Sta girando un documentario sulla vita di James Dean e vuole che io faccia la voce narrante. Forse accetterò». Avvicina il piatto di torta di mele. «O forse no. Quando mi entusiasmo per una cosa, l’entusiasmo non dura mai più di sette minuti. Sette minuti esatti. È il mio limite». Ha già finito la sua torta, fissa la mia porzione. Gliela passo.
Nelle recensioni al primo film di Dean, La valle dell’Eden, molti critici si sono soffermati sulla somiglianza, quasi da plagio, tra i suoi manierismi recitativi e quelli che hanno reso famoso Brando. «James aveva una fissazione per me. Qualunque cosa io facessi, la faceva anche lui. Spesso mi chiamava». Solleva all’orecchio una cornetta immaginaria e fa un sorriso scaltro, da spia. «Lo ascoltavo mentre lasciava messaggi nella segreteria telefonica, chiedendo di parlarmi. Non ho mai aperto bocca. E non l’ho mai richiamato. Ma quando alla fine...».
Siamo interrotti da un telefono vero. «Sì?», risponde. «Sono io. Da dove chiama? Ma io non conosco nessuno a Manila. Gli dica che non ci sono».
Riattacca e riprende il discorso: «Quando alla fine ho incontrato Dean, eravamo a un party, e lui faceva il matto. L’ho preso da parte, gli ho dato il nome di uno psicoanalista, lui c’è andato. E la recitazione, almeno quella, è migliorata. Verso la fine, credo che stesse trovando la sua strada come attore. Ma tutto questo glorificare il suo personaggio non ha senso. Ecco perché penso che il documentario potrebbe essere importante. Per far capire che non era un eroe, per mostrare quello che lui veramente era, un ragazzo perduto in cerca di se stesso. Questo bisognerebbe fare, questo mi piacerebbe fare – forse per espiare certi peccati miei. Per esempio. Il selvaggio. Ma chi lo sa? I sette minuti sono il mio limite».
Inizia ad arpeggiare l’aria con le dita. «La recitazione è una cosa talmente impalpabile. Una cosa fragile e timida che un regista sensibile può aiutarti a tirare fuori. Su un set cinematografico, questo momento cruciale arriva verso il terzo ciak, se hai un regista capace di evocarlo. Gadge (il soprannome di Elia Kazan, ndr) in questo è bravissimo. Con gli attori è meraviglioso».
Proprio un film diretto da Kazan, Fronte del porto, contiene una delle più memorabili scene di Marlon Brando: il tragitto in auto durante il quale Rod Steiger, nei panni del suo fratello venduto alla malavita, confessa che lo sta portando verso un’imboscata mortale. È questo, gli chiedo, l’esempio del momento cruciale di cui sta parlando? «Vediamo...». Stringe gli occhi. «Intanto, non mi piaceva il modo in cui la scena era scritta. C’è stato parecchio da discutere. Poi ero stufo di tutto il film. Le riprese erano in New Jersey in pieno inverno – Cristo, che freddo! E stavo attraversando dei problemi. Problemi di donne. Mi faccia ricordare. Abbiamo dovuto fare sette ciak, perché Rod Steiger non la smetteva di piangere: è uno di quegli attori che amano piangere. L’abbiamo fatta e rifatta, tanto che non ricordo se quel momento lì è mai arrivato. La prima volta che ho visto il film, in una saletta di proiezione, mi è sembrato così terribile che sono uscito senza neppure rivolgere la parola a Gadge». Un mese fa, un amico di Brando mi ha detto: «Marlon si rivolta sempre contro quello che sta facendo. Sembra trovare conforto nell’eterna insoddisfazione».
Sono le dieci e trenta di sera e sotto le finestre il giardino zen dell’hotel, con la sua immacolata disposizione di rocce e alberi, galleggia nella nebbia. «Lei è mai stato a Nara? È davvero interessante», mi fa. Sì, ci sono stato, e sì, è interessante: a un’ora di auto da Kyoto, una città da cartolina in mezzo a un parco, l’apoteosi del genio giapponese nel costringere la natura, quasi con l’ipnosi, a fare cose innaturali. Chissà come, il pensiero di Nara ne evoca in lui un altro: «Mi piacerebbe sposarmi. Voglio avere bambini». Forse non è, in fondo, un saltare di palo in frasca, il suo. La sicurezza gentile di Nara può evocare il matrimonio, la famiglia. «Hai bisogno dell’amore», continua. «Non c’è altro motivo per vivere. Gli uomini non sono diversi dai topi, sono nati per svolgere la stessa funzione. Per procreare».
(«Marlon», dice Kazan, «è una delle persone più dolci che io abbia mai conosciuto. Forse la più dolce». Ed è facile credergli quando si osserva Brando in compagnia di bambini: a suo agio, attento, giocoso, quasi un loro coetaneo dal loro punto di vista emotivo, un complice).
Continua: «È stato quello il mio problema più grande. La mia incapacità di amare». Si mette in piedi, fermo, come a cercare qualcosa. Trovate le sigarette, aspirando il fumo, si getta sulla pedana. «Non ce la faccio. Ad amare qualcuno. Non mi fido di nessuna persona tanto da darmi a lei. Ma sono pronto lo voglio, e forse ci riuscirò, sono sul punto di riuscirci». Gli occhi si stringono a fessura, ma il tono della voce, più che intenso, è indifferente. «Perché, in fondo, che altro c’è?».
Poi: «In compenso ho amici. No, non li ho». Un match verbale tra sé e sé. «Certo che li ho», decide infine. «E con alcuni di loro non mi nascondo. Dico tutto quello che mi succede. Ti devi pur fidare di qualcuno. Anche se non fino in fondo... Lo sa come stringo un’amicizia, io?». Si sporge leggermente verso di me. «Procedo con molta cautela. Giro intorno e intorno. Gradualmente, mi avvicino. Poi sporgo la mano e tocco, ma con quale delicatezza...». Le sue dita mi sfiorano il braccio. «Poi mi ritraggo. Aspetto un po’. Perché ci si chieda dove sono finito. E al momento giusto, mi riavvicino. Tocco. Giro intorno». Ruota la mano, come se stringesse una corda. «Prima che se ne rendano conto, sono aggrovigliati, presi. Sono miei. E a volte, all’improvviso, sono tutto quello che hanno. Perché, vede, spesso sono persone che si sentono sempre fuori posto. Io però li voglio aiutare, e si affidano a me. Sono il loro duca, quasi. Il duca del mio possedimento».
Brando sbadiglia. Dev’essere passata l’una. «Fumiamoci un’altra sigaretta», mi fa, mentre accenno a prendere il cappotto. «Non crede che dovrebbe andare a dormire?», gli dico. «Andare a dormire vuoi dire doversi poi alzare. E la maggior parte delle mattine non so neanche perché lo faccio, tanto mi sembra insopportabile. Comunque, può darsi che più tardi lavori». Fuori ha iniziato a piovigginare, quindi non mi dispiace la prospettiva di un ultimo drink prima di andare a letto. All’improvviso dice: «Mia madre? È andata a pezzi, come una porcellana».
Benché nato in Nebraska, dove suo padre faceva il commerciante di mangimi, Brando – terzogenito e unico maschio – traslocò presto a Libertyville, Illinois, dove la famiglia si installò in una grande eccentrica casa. Mungere la mucca era il compito quotidiano di Bud, come veniva allora soprannominato Marlon. Bud era, a quanto pare, un ragazzine estroverso e competitivo. Ribelle, anche: non c’era domenica che non fuggisse di casa. Ma, come le sorelle, era attaccatissimo alla madre. La signora Brando recitava da protagonista nelle piccole compagnie teatrali del posto, e da sempre sognava le luci della ribalta. Suo figlio, che aveva dissuaso da certe iniziali ambizioni impiegatizie, e che nel 1942 era stato scartato dall’esercito per via di un ginocchio infortunato, fece le valigie e partì per New York. Addio a Bud l’adolescente grassottello e infelice dalla zazzera bionda: è il momento di Marlon, l’uomo fatto, il talento.
Ma Brando non ha dimenticato Bud e, quando parla del ragazzo che è stato, sembra ancora abitato dal suo spirito. «Mia madre era tutto per me. Tornavo da scuola...». Esita, quasi per darmi il tempo di visualizzarlo, un ragazzo che trascina i piedi per strada, di pomeriggio. «Non c’era nessuno a casa. Niente nel frigorifero». Scorrono le diapositive: stanze vuote, una cucina. «Poi suonava il telefono. Era un bar. "Abbiamo una signora, qui. Meglio se viene a prenderla”». Flash forward, Bud ha 18 anni: «Ho pensato che se mi amava abbastanza, se si fidava abbastanza di me, potevamo vivere insieme, mi sarei preso cura di lei. E a un certo punto, è successo davvero. Ha lasciato mio padre ed è venuta ad abitare da me, a New York, mentre recitavo a teatro. Ce l’ho messa tutta. Ma il mio amore non bastava. Non era abbastanza importante, per lei. Se n’è andata. E un giorno...». La sua voce si fa più piatta, ma più acuta. «Un giorno ho deciso che non mi importava più. Era lì, in una stanza, aggrappata a me. E l’ho lasciata cadere. Perché non ce la facevo più a guardarla andare a pezzi, come una porcellana. Sono passato sopra il suo corpo, sono uscito. E, da allora, sono indifferente».
Lo scampanio del telefono sembra svegliarlo da uno stordimento. Mi accompagna alla porta. «Be’, sayonara», mi saluta scherzosamente. «Dica alla reception di chiamarle un taxi». Poi, quando sono a metà corridoio: «E mi raccomando, non dia troppa importanza a quello che dico. Non la penso sempre allo stesso modo».
Tratto da The Duke In His Domain, di Truman Capote. Copyright 1957, 1965, 1966, 1968, 1969, 1971, 1972, 1973 by Truman Capote. Per concessione di Random House Publishing Group. Originariamente pubblicato nel New Yorker, novembre 1957.