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 2014  agosto 06 Mercoledì calendario

QUELLA SUA MAGLIETTA GIALLA

[Intervista a Vincenzo Nibali] –

Arrivo, puntuale, nel luogo dell’appuntamento, la hall dell’albergo. Vincenzo Nibali non c’è. Penso: sarà in ritardo. Poi noto, nella sala delle colazioni, un padre seduto con una neonata in braccio. Ha la faccia da bambino, il naso, importante, sprofondato nel vestitino di chiffon di lei, gli occhi chiusi. Solo dalle gambe capisco che è «lo Squalo».
29 anni, siciliano di Messina, il 27 luglio ha trionfato al Tour de France – a 16 edizioni dall’ultimo vincitore italien, Marco Pantani – conquistando la leggendaria «tripla corona»: aveva infatti già vinto i due restanti Grandi Giri, la Vuelta a España nel 2010 e il Giro d’Italia nel 2013. Solo a cinque altri corridori, nella storia del ciclismo mondiale, è riuscita la storica impresa, e solo a un altro italiano, Felice Gimondi, negli anni Sessanta. Nibali è anche il primo campione del nostro Sud.
Oggi vive a Lugano con la moglie Rachele, 27 anni, e la loro Emma, cinque mesi. Ma ci incontriamo a Eindhoven, nei Paesi Bassi, dove Nibali – che corre per la Astana Pro Team – ha appena vinto un’altra corsa importante, il Criterium di Wolvertem, in attesa del Mondiale a settembre («Speriamo di farcela, avrei bisogno di più riposo»). Lo accompagna la famiglia al completo. Niente babysitter: «Siamo per fare da soli», dicono lui e Rachele all’unisono, «non lasceremmo mai nostra figlia a una persona estranea, al massimo ci aiutano i nonni».

Perché il Sud non aveva mai sfornato campioni prima di lei?
«Un corridore importante l’abbiamo avuto – Giovannino Corrieri, messinese come me, gregario di Bartali – ma era tanto tempo fa. Oggi in Sicilia i ciclisti faticano a emergere per le difficoltà economiche e la mancanza di sponsor. Dovrebbero entrare in una squadra del Centro o del Nord, ma non tutti possono permetterselo».
Lei come ha fatto?
«Sono stato uno degli ultimi fortunati. Mi sono trasferito in Toscana a 15 anni, dove un direttore sportivo mi aveva notato. Subito dopo, una legge della Federazione ha vietato ai ragazzi nati dopo il 1984 di trasferirsi senza la famiglia. Ma come fa un intero nucleo familiare a spostarsi per seguire il sogno di un figlio? Infatti mio fratello, che è nato nel ’92 e fa il ciclista professionista come me, ha dovuto aspettare di essere maggiorenne per trovare una squadra al Nord».
Lei quando ha iniziato ad andare in bicicletta?
«Da bambino. Mio padre era appassionato ma aveva scoperto la bicicletta a trent’anni, troppo tardi per farne un lavoro. A Messina, con mia mamma, ha un negozio di foto. Per comprarmi la bici da corsa, che è molto costosa, con papà andavamo alle gare e facevamo i ritratti dei ciclisti a pagamento. Il nostro non è uno sport ricco come il calcio: se andavo a una corsa a Palermo, dopo un viaggio di trecento chilometri mi cambiavo in macchina».
Quando ha capito che poteva diventare un lavoro?
«Presto, perché vincevo. Papà mi faceva allenare ore e ore al giorno: fino a quando è riuscito a starmi dietro prendeva la bici anche lui, poi è passato allo scooter. Partivamo alle sette di mattina e tornavamo magari alle cinque di pomeriggio. Da Messina fino a Taormina, andata e ritorno, fermandoci ogni tanto per mangiare: frutta che staccavamo dagli alberi, granite, panini. A volte, una partita a biliardino. Ancora oggi sono i ricordi più belli che ho con lui».
Suo padre ha raccontato al Corriere della Sera che a un certo punto lei voleva mollare, e che lui, con un ceffone, la convinse a continuare.
«Ho avuto un momento di stanchezza: non mi andava di uscire in bici sempre solo o con lui. Quello che mi ha convinto a continuare non è stato un ceffone, ma il gruppo di coetanei vicini di casa, mio cugino in testa, che ha inziato ad allenarsi con me. Le lunghe ore passavano più in fretta, si scherzava, si chiacchierava, qualche volta ci si fermava a fare un bagno in mare».
Ma la sberla c’è stata o no?
«Non c’è stata. Vero è che papà era severo, specialmente alle corse. Se anche vincevo, mi faceva notare i miei errori. Così però mi aiutava, mi faceva capire dove sbagliavo e, puntando sul mio carattere ribelle, mi spronava: ti faccio vedere io di che cosa sono capace».
A 15 anni, in Toscana.
«Mi prese una squadra di Mastromarco, provincia di Pistoia. Ero contento di trasferirmi perché realizzavo il mio sogno, ma il primo anno è stato duro: lasciavo la mia famiglia, la scuola, gli amici. Eravamo in due che venivamo dalla Sicilia, abitavamo da soli, dovevamo farci il letto e il bucato, sono cresciuto in fretta. L’anno dopo mi sono trasferito a casa di Francesco Carli, il mio direttore sportivo. Ho vissuto otto anni con loro, sono una seconda famiglia per me».
Si sente più toscano o siciliano?
«Un amico di mio padre, quando prendevo il traghetto per andare a fare le gare in Calabria, diceva: “Nibali, oggi si corre in Italia”. Io però mi sono sempre sentito italiano. La Toscana mi ha dato tanto, la Sicilia è la mia terra. I colori, il mare, le navi che passano: è quello che ho visto per tanti anni dalla mia bici».
Lo vorrebbe il ponte sullo Stretto?
«Sarebbe utile allo sviluppo, ma sull’ambiente avrebbe un impatto devastante. Penso alle parole di mio nonno – “Di questo ponte si parla da quando ero piccolo io, e ancora non si è fatto” – e mi dico: si può vivere anche senza».
Che cosa chiede al governo per la sua Sicilia?
«Molto è stato già fatto. Negli ultimi anni c’è stato un cambiamento radicale, e un rinnovamento della classe politica. A Messina è arrivato come sindaco Renato Accorinti, professore di scuola: grazie a lui abbiamo un centro pedonale e la pista ciclabile. A chi la critica perché non ha le aiuole spartitraffico faccio notare che a Lugano ce l’hanno uguale».
L’anno scorso dichiarò di essere simpatizzante di Grillo.
«Mi piaceva la sua disponibilità a scendere in mezzo alla gente. Poi però mi ha deluso. Nell’incontro in streaming con Renzi non lo lasciava nemmeno parlare. Sono cose che non si fanno, né in politica né altrove».
Renzi le piace?
«Io penso a pedalare. Però ho apprezzato che lui e il presidente Napolitano mi abbiano mandato dei messaggi per dirmi che l’Italia era con me».
29 anni, già marito e padre.
«Non ho mai fatto la vita dei miei coetanei, e non solo per via del ciclismo. A me piace stare a casa sul divano. I calciatori festeggiano le vittorie in discoteca. Dopo 250 chilometri sui pedali, l’unica cosa che voglio è dormire».
Come ha conosciuto sua moglie?
«Un appuntamento al buio combinato da Agnoli, il mio compagno di squadra. Rachele è laziale di Acuto, vicino a Fiuggi, ed era un’amica di sua moglie. È stato colpo di fulmine».

Interviene Rachele: «Non sapevo che fosse un corridore, neppure pensavo che quello potesse essere un lavoro. Vincenzo mi ha detto subito: “È difficile essere la fidanzata di un ciclista, noi siamo sempre in giro”. Ma la cosa non mi preoccupava, io ho un carattere indipendente, neanche volevo sposarmi. Dopo un anno, però, la sera del 31 dicembre 2011, mi ha fatto la proposta. Dovevamo andare a un concerto in piazza e non capivo perché si fosse messo tutto elegante. A un certo punto ha tirato fuori una scatolina e ha detto: “Se lo vuoi, è per sempre”. Io lì per lì non ho capito, pensavo stesse recitando quella pubblicità dei diamanti. È stata una scommessa, non ci eravamo visti molto, ma ho pensato: ci conosceremo meglio».

Vincenzo, ha avuto altre fidanzate importanti prima di Rachele?
«Una storia durata cinque anni, finita per una serie di motivi, compreso il fatto che non mi era stata fedele. Io su questo non perdono, non ho mai tradito in vita mia».

Rachele: «Più che di me, è geloso di Emma, del suo affetto. Quando sta via tanti giorni, ha paura che al ritorno lei non lo riconosca».

Ora che è famoso, le tentazioni non mancheranno?
«So che cosa cercano le ragazze che mi girano intorno. So perché sono interessate. Se avessi voluto libertà, sarei rimasto single».

Rachele: «Le donne le guarda, quelle che lo colpiscono le noto prima di lui: more e formose, genere Bellucci».

Sua moglie ha raccontato di essersi sentita abbandonata dopo la nascita della bambina. Ha parlato di una fase difficile nel vostro rapporto.
«Sono difficoltà normali, periodi di assestamento che vivono tutte le coppie quando arriva un bambino. Capisco mia moglie ma anche lei capisce me: il mio non è un lavoro in cui posso stare a casa, abbiamo obblighi contrattuali, e poi basta una settimana non a regime per rovinare sei mesi di preparazione. Una cosa è certa: non ho mai pensato all’eventualità di separarmi. Per noi del Sud, il divorzio è una disgrazia».

Rachele: «È successo che ho avuto un parto lungo due giorni, poi qualche complicazione. Dopo una settimana torno finalmente a casa e Vincenzo deve partire. Non nego di averla presa male. Razionalmente capivo, ma ero sfinita, e avevo paura di non farcela con la bambina, da sola».
Fatto sta che la sua stagione agonistica non è iniziata al meglio. Per questo alcuni, soprattutto in Francia, hanno voluto sollevare sul suo exploit al Tour l’ombra del doping.
«L’inizio di stagione non è stato facile perché doveva nascere mia figlia e io ero preoccupato, avevo paura di non essere accanto a mia moglie nel momento del bisogno. Avevo preso sette chili di troppo, che forse non si notavano, ma c’erano e li sentivo. A chi fa insinuazioni vorrei ricordare che Vincenzo non è stato scoperto oggi. Fin da ragazzino, ho sempre vinto: il Tour non lo definirei un exploit. Sono malignità che fanno male, perché il nostro è uno sport di sacrifici. Macchiato, purtroppo, dagli scandali di un passato che stiamo ancora scontando. Certo, capisco la disillusione: quanta gente ha fatto salti mortali per andare a vedere il suo campione, gli ha chiesto l’autografo, e poi ha scoperto di essere stata ingannata?».
Si riferisce al doping, scoperto ad anni di distanza, del più forte di tutti: Lance Armstrong.
«Ha preso in giro il mondo per sette anni. E ci faccia caso: quando gli hanno tolto le vittorie, nessuno di quelli arrivati secondi o terzi ha reclamato il titolo».
Intende dire che sapevano di non essere puliti neanche loro?
«Purtoppo quel ciclismo va visto nel contesto di un’epoca bruttissima per il nostro sport. Oggi è cambiato tutto, anche grazie a chi si è pentito e ha contribuito a smantellare il sistema. La svolta c’è stata nel 2006, quando è stato introdotto il passaporto biologico. Noi ciclisti abbiamo accettato i controlli a sorpresa. Non è bello sentir suonare la porta alle sei del mattino e non poter neanche tornare in stanza ad avvisare tua moglie che sta dormendo. Non è bello, ma si fa».
Ancora nel 2012, il maratoneta Alex Schwazer è stato escluso per doping dall’Olimpiade di Londra. A Vanity Fair ha raccontato di essere entrato in crisi dopo che gli avversari dopati hanno iniziato a prenderlo in giro perché non vinceva più. È una reazione che può capire?
«Dovrei mettermi nei panni di chi non vince, e io ho sempre vinto. Ma se mi capitasse adesso di non vincere più, dopo tanti trionfi importanti, lo accetterei».
Marco Pantani ha avuto la carriera e la vita rovinate dal sospetto del doping. Proprio di questi giorni è la notizia 
della riapertura dell’inchiesta sulla sua morte. I familiari non hanno mai creduto all’overdose, e ora anche gli inquirenti prendono in considerazione la pista dell’omicidio.
«Era il mio idolo di ragazzino. Gli anni della “pantanimania”: bandana, sella, occhiali, tutti volevamo essere come lui. Ma non credo faccia bene al ciclismo tornare a parlare della sua morte, e non credo faccia bene nemmeno a Marco. I suoi tifosi vorrebbero ricordarlo per il campione che era, non per quella bruttissima notte».
La famiglia chiede la verità.
«Prima di sparare un titolo in prima pagina, però, bisognerebbe avere certezze: i processi non si fanno sui giornali. Detto questo, capisco e rispetto il volere della famiglia. Tonina, la madre, mi ha fatto avere la maglia gialla di Marco quando hanno celebrato il decennale dalla sua morte a febbraio. Io purtroppo non sono potuto andare a Cesenatico, perché stava per nascere Emma, ma andrò presto a trovarla».
Pantani era il Pirata: perché lei è lo Squalo?
«È partito tutto da un mio amico, in Sicilia, che ha disegnato su uno striscione lo squalo dello Stretto, una specie piccola, che dalle nostre parti c’è davvero».
Lo squalo è cattivo, lei mica tanto.
«So esserlo quando serve. Se devo mandare qualcuno a quel paese, non ci penso due volte. E sono testardo: ho sempre saputo quello che volevo».
Deve avere anche carisma, per convincere una squadra di gregari a sputare sangue per lei.
«Non credo di essere un leader per carattere: fin da bambino, a scuola, ero uno che stava per conto suo. In squadra non sono un trascinatore: se gli altri scelgono di seguirmi, è per quello che ho dimostrato di saper fare. E perché sono umile: sanno che, se un giorno non mi sento in forma, mi metto a disposizione anche di un giovane che non ha mai vinto niente».
I soldi le hanno cambiato la vita?
«Certo. Però, come dico sempre: oggi posso comprarmi la Ferrari, ma non ho problemi a salire sul tram».