Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  agosto 06 Mercoledì calendario

TORTURERESTE VOSTRO FRATELLO?

Bobby con la madre Lola non ha passato che una manciata di minuti: quando è nato, il 31 gennaio 1983, l’hanno subito allontanato da lei e non l’ha più rivista. I test sono cominciati poco dopo il suo primo compleanno. Il tempo di arrivare a 19 anni, e aveva subito più di 250 operazioni e diverse biopsie a fegato e muscoli. Quando non era sotto i ferri, per tenere a bada la paura si mordeva le braccia fino a sanguinare.
Tecnicamente, però, Bobby non è mai stato ammalato. È solo uno scimpanzé che ha vissuto più di metà della sua vita alla Coulston Foundation, un istituto di ricerca biomedica ad Alamogordo, nel deserto del New Mexico, tristemente noto negli Stati Uniti per le pessime condizioni di vita degli animali nei suoi laboratori.
Nel 2002, quando la Coulston ha chiuso per bancarotta, lui e altri 265 scimpanzé sono stati liberati da Save the Chimps, un’organizzazione no profit che gestisce il più grande santuario al mondo per questa specie, più di 12 mila metri quadrati sotto il sole della Florida, a Fort Pierce.
Bobby l’hanno trovato solo, dentro all’edificio più squallido di tutti, soprannominato The Dungeon, «la segreta». Quasi catatonico, emaciato, con i segni dell’automutilazione. Dormiva seduto, la faccia rivolta al muro per non vedere che cosa gli avrebbe riservato lo sportello della gabbia che si apriva. Ci sono voluti dieci anni perché smettesse di farsi del male, e le sue ferite diventassero solo cicatrici. Quelli che mostrava, e come lui molti altri, erano i sintomi di un disturbo post-traumatico da stress. Lo stesso degli esseri umani.
Gli scimpanzé, d’altronde, sono la specie a noi più vicina: condividiamo quasi il 99% del Dna. Come noi provano paura, tristezza, ansia e gioia. Come noi abbracciano, baciano, fanno il solletico. Possono imparare la lingua dei segni e fare semplici calcoli. E ammalarsi di quasi tutte le malattie che ci colpiscono. Queste somiglianze li hanno resi fin dagli anni Venti i candidati ideali alla sperimentazione.

Da Hollywood allo zoo
Gli Stati Uniti sono l’unico Paese che ancora fa ricerca sugli scimpanzé. «Ma le politiche stanno cambiando e adesso, per la prima volta, c’è davvero speranza», mi spiega Jen Feuerstein. Dirige il santuario che, nel momento in cui parliamo, ospita 257 scimpanzé. «Ce ne sono ancora 850 nei laboratori, la maggior parte di loro non è sottoposta attivamente a test. Sono semplicemente tenuti in custodia nell’eventualità che possano servire di nuovo. Trecentosessanta sono di proprietà statale, gli altri di privati. Il governo ne vuole pensionare 310, ma il processo è lento». Il primo passo: 110 sono stati liberati a luglio.
Feuerstein ha lavorato cinque anni in un laboratorio di ricerca prima di arrivare a Save the Chimps, ed è stato proprio quel lavoro, mi dice, che le ha fatto cambiare punto di vista: «Posso capire perché siano stati scelti proprio gli scimpanzé per gli esperimenti, ma le loro sofferenze, il modo in cui sono stati catturati in Africa: per quello non siamo giustificati. Adesso sappiamo molto di più sui loro bisogni, le loro emozioni e la loro intelligenza, ed ecco perché le cose sono cambiate in tutto il mondo. Mi chiedo anche se si possa davvero dire che tutti gli esperimenti sono stati necessari. Se gli scimpanzé non fossero esistiti, avremmo sviluppato ugualmente il vaccino per l’epatite B? Io credo di sì. Lo stesso vale per l’industria dell’intrattenimento, che li sfrutta quando sono ancora cuccioli e poi, appena crescono e diventano difficili da comandare, li abbandona negli zoo privati o li rinchiude in gabbia, com’è successo alla nostra April, salvata nel 2002. C’era uno scimpanzé in The Wolf Of Wall Street, ma Apes Revolution - Il pianeta delle scimmie (da poco uscito nelle sale, ndr) ha dimostrato che non serve usarne di veri nel cinema: basta l’animazione virtuale».
È vero, gli scimpanzé hanno contribuito in passato a scoprire, oltre il vaccino per l’epatite B, quello per la poliomielite e l’esistenza dell’epatite C. Sono stati usati nei primi crash test, per sperimentare gli effetti dell’abuso di alcol e i contraccettivi orali. Ma non sempre sono stati i soggetti più adeguati, come si pensava. In vent’anni di tentativi, per esempio, si sono dimostrati inadatti per la ricerca sull’Aids: solo un paio di loro, infettati con l’Hiv, ha sviluppato la malattia, ma in maniera mutata e quindi inutile all’uomo.
Anche per questo gli scienziati, con il progredire della tecnologia, stanno valutando alternative all’uso degli animali che si basano su modelli al computer e studi di cellule isolate. Non a caso, anche alcune case farmaceutiche americane hanno rinunciato ai test sugli scimpanzé. Di certo, di un settore le scimmie non devono più avere paura: nel 1997 l’Aeronautica militare americana ha deciso di interrompere tutti gli esperimenti su di loro iniziati negli anni Cinquanta, e gli animali superstiti sono finiti a Save the Chimps.

Cavie dallo spazio
C’è un video che mi è impossibile togliere dalla testa. Un po’ sgranato, in bianco e nero, mostra uno scimpanzé che deve avere quattro o cinque anni, e che di un bambino di quell’età ha le dimensioni e la fiducia: indossa una tutina bianca e accarezza il volto dell’uomo che lo sta imbracando in una capsula. Ignaro del fatto di essere sul punto di diventare Ham, il primo scimpanzé lanciato nello spazio: era il 31 gennaio 1961.
Da quel viaggio di 16 minuti e 39 secondi, Ham è tornato vivo, solo un po’ acciaccato, aprendo la strada al primo astronauta umano. Poi è stato subito pensionato in diversi zoo, fino alla morte. Non hanno avuto la stessa «fortuna» gli altri scimpanzé dei programmi spaziali, che sono rimasti a soffrire nei laboratori.
Amy è una veterana dell’Aeronautica militare degli Stati Uniti, ma non troverete il suo nome in nessuna celebrazione ufficiale. È nata il 3 febbraio 1983 alla Holloman Air Force Base di Alamogordo, la stessa dove quasi vent’anni prima era stato addestrato Ham e dove, negli anni Cinquanta, erano stati portati 65 scimpanzé catturati in Africa. Due ore dopo il parto, Amy è stata tolta alla madre Clair, una fattrice, e spostata nella nursery. A un anno, è stata mandata a Rockville, nel Maryland, e usata per testare il vaccino dell’epatite B. Dal 29 marzo 1984 al 3 giugno 1987, una volta alla settimana, è stata legata a un tavolo operatorio mentre qualcuno le prelevava il sangue e le infilava aghi nel fegato per le biopsie.
Non ci sono resoconti, dicono da Save the Chimps, che indichino che sia stata mai anestetizzata per queste operazioni, o che le abbiano somministrato una qualche sostanza per alleviare il dolore.
All’età di 3 anni, Amy è tornata alla Holloman, dove hanno cercato di trasformare anche lei in fattrice, senza successo: non ha mai avuto figli.
Nel santuario di Fort Pierce, dove ancora oggi preferisce la compagnia dei suoi ex «commilitoni», raccontano che è facile riconoscerla, soprattutto quando è all’aperto, perché cammina sui palmi e non sulle nocche come gli altri della sua specie, quasi a non voler perdere nemmeno per un secondo il contatto con quella terra che ha conosciuto per la prima volta nel 2001: prima aveva toccato solo asfalto e cemento.
Perché gli scimpanzé catturati in Africa si ricordano la libertà, ma quelli nati in cattività, mi spiega Feuerstein, quando vengono liberati appoggiano i piedi sull’erba piano piano, come un uomo che saggia l’acqua di una piscina. Che cos’è?, si chiedono. Affonderò? E poi alla fine capiscono che invece restano a galla. Ed è una scoperta che li riempie di gioia».